ELEMENTI DI PROSOPATIA






ARTICOLI SULLA SCRITTURA

Manifesto dell’antipensiero

Agitatori di parole

Errare Divinum Est

Fidati della storia





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MANIFESTO DELL’ANTIPENSIERO

“Per me scrivere è una sorta di guarigione. Come ho scritto una volta a Octavio Paz, ciò che è veramente straordinario è che ogni volta che ho finito di scrivere ho voglia di fischiettare. Non credo alla letteratura, credo soltanto ai libri che traducono lo stato d’animo di chi scrive, il bisogno profondo di sbarazzarsi di qualche cosa. Ogni mio scritto è una vittoria sullo sconforto. I miei libri hanno molti difetti, ma non sono fabbricati, sono veramente scritti a caldo: invece che schiaffeggiare qualcuno scrivo qualcosa di violento. Dunque non si tratta di letteratura, ma di terapia frammentaria: sono delle vendette. I miei libri sono frasi scritte per me o contro qualcuno, non per agire. Atti mancati. Un fenomeno noto, ma nel mio caso sistematico.”


Questo estratto da un’intervista ad E.M. Cioran esprime lo spirito dell’antipensiero, che è poi anche il mio approccio al lavoro di scrittura e forse una sorta di modesta e incompiuta filosofia di vita.
Partiamo però dalla scrittura. Scrivere per me è una gioia. Anche adesso, mentre compongo queste frasi, provo una sorta di sottile euforia. Il fatto è che il momento in cui scrivo è forse l’unico in cui riesco veramente a non pensare.
Capisco che questo possa sembrare paradossale, essendo la scrittura considerata da molti, senz’altro, l’espressione più matura e plateale del pensiero. Si suppone che esistesse il pensiero ben prima della scrittura - opere come l’Odissea o gli Yoga Sutra sono frutto di culture orali - ma solo con questa ne abbiamo una manifestazione oggettiva e tangibile, una sorta di pensiero solidificato.
Eppure la mia esperienza personale mi suggerisce tutt’altro, e non sono il solo. “Non so cosa penso finché non leggo quel che scrivo”, dichiarava Flannery O’Connor.
Che io mi metta a redigere un testo di narrativa o di saggistica, raramente premedito quello che vado a comunicare. Ovviamente mi capita di avere delle idee e non avere ‘carta e penna’ a disposizione. Così cerco di fissarmi nella testa il tema che voglio trattare, o lo spunto drammatico da sviluppare, e ne seguono alcuni fraseggi o passaggi logici che mi appunto mentalmente.
Tuttavia, nel momento in cui mi metto a tavolino, osservo il mio stato mentale cambiare drasticamente. Mettere le parole in sequenza una dietro l’altra diventa un impulso irrefrenabile: sono entrato nel tunnel.

Il tunnel è la dimensione che guida la mia scrittura. Un flusso simbolico-percettivo trascinante, che rivela tutto ciò che affolla il mio subconscio e rimarrebbe altrimenti in uno stato di perenne latenza, ristagnando.
Sono innamorato della scrittura, e per questo provo una fiera antipatia verso ogni tentativo di ‘raddrizzarla’, come qualcuno che presentasse la nuova fiamma a un amico e si sentisse dire “piuttosto gnocca, non si discute, magari però una bella dieta e un giretto dal dentista…”
Purtroppo, questo è ciò che accade di regola quando le fatiche di un aspirante autore raggiungono la scrivania di una casa editrice ed entrano in fase di valutazione per essere pubblicate.
Inizia, a quel punto, quel processo di sanificazione che chiamiamo oggi ‘editing’, che di principio punterebbe ad arricchire la fruibilità del testo epurandolo da refusi, ripetizioni, incoerenze stilistiche e drammaturgiche, ma in un gran numero di casi finisce per massacrarne l’anima.
Intendiamoci, il testo che state leggendo è stato editato, come tutto o quasi ciò che si trova in questo sito, da me o da altri a cui l’ho sottoposto per un proof reading. Non solo inciampare in una sgrammaticatura è brutto e fastidioso, ma rileggendo ad esempio un racconto dopo averlo lasciato sedimentare qualche giorno, regolarmente trovo aggettivi più efficaci, a volte cambio la punteggiatura o l’ordine delle frasi o degli stessi avvenimenti. Insomma apporto numerose modifiche che rendono - secondo la mia percezione del momento - il testo più comprensibile e incisivo.
Esiste però un punto oltre il quale non voglio andare. Esiste una regione di libertà assoluta all’inizio e alla fine del processo che ha un ché di sacrale. Una dimensione impalpabile violata la quale il meglio diventa nemico del vero.
Perché se è vero che rileggendo un testo dopo qualche giorno si trovano molte correzioni migliorative, non è detto che lo stesso principio regga dopo qualche anno. Ci sono classici il cui linguaggio ha oggi un sapore datato, ingenuo o sovraccarico, eppure quella debolezza è proprio ciò che rende quell’autore unico e fermo nel posto che occupa all’interno del grande fiume evolutivo della coscienza umana.

Dobbiamo, fra l’altro, tenere conto del mezzo tecnologico tramite cui avviene la scrittura, della relatività di ciò che influenza le nostre valutazioni estetiche. Da quando si è passati dalla scrittura su carta ai fogli elettronici, non c’è testo che non venga editato innumerevoli volte dall’autore prima che occhi estranei vi si posino per la prima volta. Nulla del genere era mai accaduto in passato. Quante revisioni di stampa poteva permettersi un editore, anche nel caso di autori di punta come Faulkner, Hemingway, Woolf? La costrizione del mezzo fisico rendeva la scrittura del passato - e in particolare il romanzo novecentesco da cui deriva tutto ciò che pubblichiamo oggi - qualcosa di molto più crudo di quanto possa produrre un word processor.
In un certo senso, si è forse tornati al processo compositivo dei testi orali, che gli aedi cantavano a memoria apportando ognuno ogni volta qualche variante, accompagnando i versi con melodie perdute nel tempo.
Oggi la rete è affollata di testi ripetitivi ed effimeri, tento impossibili da rimuovere dalla moltiplicazione dei server quanto sepolti da una stratificazione incessante e anonima, e in qualche modo resi irrilevanti dall’impermanenza del medium su cui sono fissati. Sono elaborati autoreferenziali in cui ognuno, arbitro unico della propria sapienza, sembra impegnato più che a trasmettere un sentire originale sulla realtà, a richiamare i riflettori sulla propria esistenza, e approfittarsi di ogni fugace passaggio dell’occhio di bue per trarne un disperato vantaggio.
Per converso, il cartaceo punta a una perfezione asettica, spreme alla goccia il potenziale di correttori automatici e suggeritori algoritmici quasi un avverbio di troppo odorasse di stalla e medioevo. L’editoria maggiore emula e si oppone all’isteria della rete, nella presunzione psicotica che sintesi e chiarezza siano sinonimi di oggettività.
Antipensiero persegue una scrittura esuberante e sporca, intima e inquieta, imbarazzante e salvifica.
Nulla è oggettivo, se non l’ossessione per il controllo.
La poesia è ciò che si perde nella perfezione.