Manifesto dell’antipensiero
Agitatori di parole
Errare Divinum Est
Fidati della storia
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AGITATORI DI PAROLE
Questo articolo farà incazzare qualcuno, lo sento.
Sto infatti per prendermela con l’italiano, la nostra meravigliosa lingua nonché strumento che permette al sottoscritto di esercitare la propria fissazione letteraria. Tradimento! Sacrilegio!
Per attenuare l’astio che prevedo di suscitare, proverò a ingraziarmi il mio gentile lettore lasciando introdurre il tema a un personaggio simpatico, Carmen.
Conobbi Carmen durante un soggiorno prolungato a Quito, in Ecuador. Eravamo colleghi al Tortuga Verde, ostello/bar/ristorante presso cui entrambi svolgevamo le mansioni più disparate, dal cambiare le lenzuola al miscelare cocktail. Per il breve periodo in cui la cosa durò (un paio di mesi), prima che il locale fosse acquisito da una gringa che decise di rimpiazzare il personale a prescindere, lavorare con Carmen fu un idillio. Carmen era (uso il passato perché ho perso i contatti da tempo, ma spero e presumo viva felice assieme alla sua adorabile famiglia) una bella ragazza di colore, con una testa di lunghe treccine ordinate. Era sincera e cordiale, capace di slanci comici irresistibili e dotata di un raro acume intellettuale. Un giorno tuttavia, poco dopo il mio arrivo all’ostello, riuscì a sorprendermi oltre ogni aspettativa.
C’era da riscrivere il testo sulla lavagna esposta accanto alla porta del ristorante, in quanto il menù era stato modificato.
“Tienes buenas letras?” mi chiese Carmen, intendendo se avessi una bella calligrafia.
Le dissi che la calligrafia non era male, ma il mio spagnolo era elementare e temevo di fare errori ortografici. Era meglio la scrivesse lei, o quantomeno supervisionasse il mio operato. Vidi il suo viso raggelarsi in una smorfia imbarazzata, le chiesi che c’era e allora mi confessò, tentennante, di essere totalmente analfabeta.
Me l’aveva rivelato perché di me si fidava, mi disse. Inoltre dovevamo lavorare insieme, prendere ordinazioni, emettere ricevute, era necessario che io lo sapessi, ma non era una cosa di cui andava fiera.
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Carmen era nata in un minuscolo pueblo sulle Ande, che più tardi ebbi modo di visitare assieme a lei, il marito Jurgen e la figlia Soledad. Il villaggio non aveva strade ed era interamente composto di casette di fango, con le pareti interne tappezzate di carta di giornale. Gli abitanti erano tutti di lontana ascendenza africana e pressoché nessuno sapeva leggere e scrivere.
A quindici anni Carmen era rimasta incinta, e aveva deciso di trasferirsi nella capitale per dare a sua figlia il potere di scegliere il proprio futuro. In un modo o nell’altro ci riuscì. Soledad era una vispa dodicenne che frequentava le scuole medie. Un anno prima del nostro incontro, Carmen aveva conosciuto Jurgen, un olandese benestante pazzo di lei che finì poi per sposarla. Partecipai al loro matrimonio e per qualche tempo abitai anche a casa loro, una villetta a due piani circondata da palme da dattero.
Qui Carmen iniziò a prendere lezioni di lettura e scrittura da un insegnate privato. E mentre la osservavo sofferente di fronte alle enormi difficoltà che le costava quel tentativo di apprendimento, non riuscivo a smettere di chiedermi come fosse strutturata la regione del suo cervello adibita alla competenza linguistica. In oltre un anno di assidua frequentazione, avevo avuto modo di conoscere Carmen come la più formidabile narratrice di storie che avessi mai incontrato. La sua non era semplice sagacia, che si sarebbe potuto attribuire a una disposizione caratteriale. La scelta dei vocaboli era sempre fulminea e precisa, l’organizzazione del racconto assieme fluida e spiazzante. Aveva avuto una movimentata vita sentimentale, e gli anddoti riguardanti i suoi ex erano autentici pezzi comici, ma era in grado di trasformare in commedia anche una visita dal dentista. E tutto ciò senza disporre degli strumenti che riterremmo indispensabili a produrre quel risultato: anni di letture colte e assimilazione di caselle sintattiche in cui catalogare preposizioni, avverbi e complementi, coniugazione di verbi e radici irregolari.
Forse, mi dissi, le parole erano appiccicate alle pareti della mente di Carmen come le pagine dei quotidiani nelle capanne del suo villaggio, piuttosto che galleggiare in casse disperse nel mare della scolarizzazione.
Nel frattempo, in oltre un anno di soggiorno in America Latina, avevo avuto modo di lavorare sul mio spagnolo. Parlavo senza pensare e anzi, quando mi capitava di incrociare un viaggiatore italiano, mi scoprivo impacciato nel tornare alla mia lingua madre. In uno di questi frangenti iniziai a chiedermi se da qualche parte esistesse una ‘Carmen italiana’, se fosse addirittura possibile.
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La domanda potrà sembrare oziosa ma in quel periodo - come tutt’ora - ragionavo molto su come funziona il linguaggio. In quegli ultimi mesi a Quito mi guadagnavo da vivere come insegnante di inglese, l’altra lingua straniera che ritengo di conoscere discretamente, e su cui in parte si basano le presenti riflessioni.
Non ho mai conosciuto persone totalmente analfabete, in Italia, ma ne ho incontrate diverse poco scolarizzate, e il loro campo di espressione linguistica era decisamente ristretto, oppure infarcito di forti inflessioni dialettali. Carmen non parlava in dialetto. Immagino che i suoi avi, emancipati dallo schiavismo da poche generazioni, non avessero avuto il tempo di svilupparne uno. Aveva quindi acquisito in famiglia uno spagnolo medio, elementare, che aveva poi arricchito frequentando ambienti eterogenei nella capitale. In questo processo io vedo una spontaneità, una naturale tendenza verso un’espressione liberamente efficace, che fatico a trasporre nel contesto italiano. E ritengo che questa difficoltà sia attribuibile ad alcuni elementi concreti e riconoscibili, di matrice sia linguistica che culturale.
Sia chiaro che ciò che riporto qui è il mio sentire personale. Non sono un linguista e le mie conclusioni sono basate su osservazioni empiriche, accumulate in anni di lavoro come traduttore e insegnante di inglese. Emergono quindi da quel processo comparativo che necessariamente si deve compiere quando si vuole rendere il senso e il sapore di un testo straniero, o si cerca di ‘caricare’ nella testa di qualcuno una lingua non sua. A un dato punto di questo processo, mi sono trovato a scontrarmi con quei limiti della lingua italiana che rendono una Carmen nostrana difficilmente immaginabile.
Non intendo polemizzare contro la lingua italiana. A che scopo, poi? Semplicemente, apprendendo altre lingue mi sono reso conto che benché tutte nascano da esigenze comunicative universali, ognuna ha caratteristiche distinte che la rendono uno strumento più versatile per dire certe cose, in un certo modo, piuttosto che altre. Queste differenze condizionano non solo la nostra scrittura, ma i nostri processi mentali e di conseguenza la cultura, l’interazione sociale, la politica.
Chi è interessato alla scrittura non può che beneficiare da uno schietto confronto con i pregi e gli eventuali limiti dell’idioma che sta utilizzando (e da cui viene utilizzato).
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Cominciamo coi pregi. Lo sappiamo tutti: ascoltata dall’esterno, cioè a prescindere dal significato delle parole, ogni lingua ha una sua impronta, una sua musicalità. La cosa risulta più evidente quando ascoltiamo una lingua incomprensibile, ed è in parte un fattore oggettivo, misurabile, in parte relativo all’idioma di partenza dell’ascoltatore (a un italiano, il tedesco risulterà più ‘duro’ di quanto appare a un olandese). Per motivi fonetici in cui non mi addentro, esiste un consenso universale sul fatto che l’italiano abbia un suono particolarmente melodioso, dolce e vagamente ipnotico. La descrizione che ho sentito più spesso da parte di stranieri è che “gli italiani non parlano, cantano”.
L’italiano racchiude in sé una sorta di magia, di mistero, trasmette implicitamente un senso di ‘lingua colta’ e dona al discorso una sofisticata aura nobilitante.
Se la portata di questo fenomeno sfugge a molti madrelingua, induce in tanti altri una sorta di idolatria idiomatica, a mio parere eccessiva e fuori luogo.
La lingua italiana è colma di nodi irrosolti, riconducibili a una chiara matrice storica. A confronto delle altre lingue europee a grande diffusione, inglese, spagnolo e in parte francese e portoghese, l’italiano corrente ha avuto un tempo radicalmente inferiore per evolvere, e in questo sviluppo è stato compresso in canali più controllati e ristretti. La cosa è evidente già dai dati numerici: lo spagnolo è lingua madre per 470 milioni di persone, l’inglese per 370 milioni (dati 2021), l’italiano risulta al ventitreesimo posto per diffusione con soli 65 milioni di parlanti madrelingua.
Ma ciò che più conta è che nonostante già dal 1200 nella Firenze dei Cerchi e dei Donati si parlasse un ‘italiano’ a noi comprensibile, la lingua dantesca rimase per sette secoli un idioma regionale o elitario, ignorata dalla grandissima maggioranza del popolo nel resto della penisola.
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La diffusione del dialetto fiorentino geneticamente modificato quale lingua nazionale, non si è veramente innescata che con la fine della Seconda Guerra Mondiale, ed è avvenuta attraverso canali istituzionali che hanno operato in parallelo senza necessariamente sovrapporsi. Se la scolarizzazione di massa ha puntato a imporre una grammatica ‘alta’, basata su classici della letteratura talvolta vecchi di secoli, il vero collante fra le realtà regionali recentemente riunificate sono state la radio e la televisione, nei cui programmi si è optato al contrario per un italiano semplificato, elaborato a tavolino per rinsaldare l’ideologia unitaria che tutti dovevano rapidamente assimilare.
Per quanto a noi possa apparire incredibile e sconfortante, dobbiamo rassegnarci al fatto che la lingua che utilizziamo quando andiamo dal panettiere, litighiamo con un vicino insolente o sussurriamo parole d’amore, è in larghissima parte un prodotto ratio-televisivo.
Questo scollamento fra l’italiano scritto e il parlato già rende conto delle mie perplessità sulla possibilità di trovare una ‘Carmen italiana’. Nel nostro paese, chi legge, parla una lingua ben diversa da chi non lo fa, ma questo non è necessariamente vero per le realtà ispano-americane o anglosassoni.
Scendendo nello specifico, il caso più eclatante è l’uso del passato remoto. Non finirò mai di stupirmi di come la nostra percezione dei tempi verbali sulla carta e nella comunicazione orale abbia un che di schizofrenico. La maggioranza degli italiani, aggiungo, è inconsapevole di questo divario, o non gli attribuisce grande importanza. A mio parere invece, il semplice uso di un tempo verbale ha conseguenze enormi sulla comunicazione interpersonale e di conseguenza nella costruzione delle relazioni.
Ok, sto generalizzando: scendendo dalle Alpi a Pozzallo, l’uso orale del passato remoto si intensifica in un gradiente ininterrotto. D’altra parte, questo percorso discendente si accompagna passo passo a un impiego incrementale del dialetto, altro fattore rilevante che vorrei tenere separato per non complicare il quadro.
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Per me, nato e cresciuto a Milano, dire a un amico “l’estate scorsa andai in Sardegna, ma non feci mai il bagno perché il primo giorno presi una brutta influenza” suona decisamente innaturale. Sono certo che l’amico si chiederebbe se quella febbre non mi abbia fuso il cervello. Dovrò dire invece: “l’estate scorsa sono andato in Sardegna, ma non ho mai fatto il bagno perchè il primo giorno mi sono preso una brutta influenza”. Almeno questa è la percezione che ho dell’italiano ‘medio’, colloquiale, quello più usato per la comunicazione pubblica e, di nuovo, quello che si sente in tv. Ed è un peccato, un vero peccato, perché l’inibizione che proviamo verso il passato remoto ci priva della chiave per aprire la porta dorata dei rapporti umani: il racconto.
Quando insegnavo inglese agli italiani, la mancata corrispondenza fra i tempi verbali delle due lingue era fonte di quotidiani tormenti per me e per gli studenti. In inglese i principi che regolano l’uso di Past Simple e Present Perfect (passato remoto e passato prossimo) sono semplici e molto sensati… Ma per un italiano oscuri ed enigmatici. Per questo, nei libri di testo si ricorre a spiegazioni fumose: il Past Simple, si dice, si usa per descrivere azioni ‘circoscritte nel tempo’, il Present Perfect per quelle ‘che hanno ripercussioni nel presente’.
…What?
Di fatto, la questione è molto meno cerebrale di così: il Past Simple serve per raccontare delle storie! Il Present Perfect per tutto il resto…
Peccato che a un italiano manchi il programma mentale che attiva la ‘modalità storytelling’ distinguendola da altre modalità espositive, e non è una mancanza da poco. Qualunque anglosassone, indipendentemente dal grado di istruzione, è in grado di riferire un fatto accadutogli, magari composto da una complessa sequenza di avvenimenti, senza incespicare in costruzioni contorte, ma con l’immediatezza che solo un tempo ‘simple’ può offrire… I went, I saw, I thought, I did, I returned home. E non importa quando si è svolta la scena, se ieri o nel secolo scorso: una storia è una storia! Il ‘remoto’ nel nostro passato è una trappola psicologica, che ci costringe a distinguere fra un passato recente (quanto?) e lontano, ingarbugliandoci in una rete di ausiliari che ci rendono narratori sempre a corto d’ossigeno. Provateci, ad avventurarvi in una costruzione romanzesca col solo uso del passato prossimo! Ben presto vi accorgerete che gli archi drammatici si appiattiscono, schiacciandosi l’uno sull’altro, rendendo la narrazione caotica e ripetitiva. Eppure è proprio quello che facciamo parlando!
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Sono partito dell’inglese, ma un discorso analogo si potrebbe fare per lo spagnolo, che con l’italiano condivide le origini latine ma ha mantenuto l’uso colloquiale del suo pretérito indefinido.
Del resto, proprio gli antichi Romani, in fatto di narrazione erano maestri di sintesi: veni, vidi, vici.
Esiste un luogo comune ben radicato secondo cui l’inglese sarebbe una lingua ‘povera’ rispetto all’italiano, ma si tratta di un pregiudizio culturale privo di fondamenti.
Qualche altro numero: la versione integrale dell’Oxford English Dictionary contiene mezzo milione di vocaboli, mentre i più comprensivi dizionari italiani d’uso comune, come Detvoto-Oli e Zanichelli, ne contemplano circa centoventimila.
All’origine di questa discrepanza numerica, sta il fatto che l’inglese è una lingua composita, ibrida e inclusiva, un mix di idiomi lontanissimi confluiti in un organismo polimorfo capace di incorporare specie aliene. Si calcola che l’80% dell’inglese moderno sia costituito da parole di origine straniera, di cui il 30-60% latine. Proviamo a riflettere su questi dati quando ci sentiamo ‘colonizzati’ dal crescente numero di termini anglosassoni che entrano ogni anno a far parte del nostro vocabolario. Questo protezionismo lessicale non potrebbe essere semplice segno di insicurezza?
Io per primo ho i brividi quando sento frasi orrendamente infarcite di business english: abbiamo un meeting per la nuova brochure, ma siamo sotto budget e sarà solo un briefing, o forse una call… Eppure credo che questa sovrabbondanza di anglicismi non sia, come ci piace pensare, conseguenza dell’imperialismo economico nordamericano, ma della disinvoltura con cui l’inglese è capace di produrre neologismi.
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Anche noi, un tempo, siamo stati brillanti forgiatori di parole. La versatilità del latino in questo senso è comprovata dall’uso che ancora oggi se ne fa nella scienza, sede elettiva della scoperta, del progresso, del nuovo. E questa corrispondenza fra la plasmabilità di un idioma e la tendenza della società che ne fa uso ad espandersi, prevalere su quelle vicine e inglobarle in sé, mutando incessantemente mentre si propaga a macchia d’olio, mi suggerisce un’ipotesi audace.Se non fosse il dominio finanziario, industriale, militare e culturale di un determinato popolo a sancire il successo dell’idioma che lo contraddistingue, ma al contrario la lingua che governa i suoi processi ideativi a facilitare la conquista del mondo?
Immagino le lingue come entità, grandi macchine logiche, sistemi operativi. Un po’ come i nostri gameti, le lingue si servono di noi come mezzi di trasporto. E come i codici genetici si esprimono in attributi esterni più o meno funzionali alla riproduzione, coaì le lingue si traducono in comportamenti e interprertazioni, più o meno congeniali a farsi largo nella corsa evolutiva delle culture.
In questo quadro, una lingua è tanto più in buona salute quanto più è capace di cambiare rimanendo sé stessa. Ma questa adattabilità è una questione assai complessa, in cui si intrecciano sintassi e politica. Più ai parlanti è consentito giocare con la propria lingua, sentirla appunto come qualcosa che si possiede, con cui è lecito fare ciò che ci pare, a partire dal basso e dalla periferia, più le fibre che intessono la trama del parlato rimarranno giovani ed elastiche. Quando un popolo vive nel timore di violare regole sacrali custodite da una casta sacerdotale, risultando ignorante o inappropriato, la sua lingua tenderà a irrigidirsi, divenendo preda di entità concorrenti che finiranno per spolparla e ridurla a un contenitore vuoto.
Anche l’inglese ha le sue regole, ma si tratta di disposizioni generali che garantiscono un campo d’azione trasformativa, dove l’innovazione è quasi sempre accettabile nell’ambito di un patto di intuitività. Ad esempio, un sostantivo può essere usato come aggettivo, e generare spontaneamente un verbo e un agentivo: rap, to rap, rapper. Questo potere generativo è la chiave della diffusione di neologismi, perché un nuovo sostantivo è utile nella misura in cui può essere articolato in forma aggettivale, verbale e deverbale senza consultare una fonte autorevole.
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Il latino lo possedeva in ampia misura, tale potere, ma sono convinto che anche il fiorentino rinascimentale non fosse chiuso all’innovazione. Era lo slang di una società prospera, una corte culturalmente vivace che stabiliva le proprie regole, portandola a farsi terreno di coltura per le idee più avanzate e irriverenti dell’epoca. Noi italiani del ventunesimo secolo, le regole le subiamo. È per questo motivo che la definisco una questione politico-sintattica. Si tratta in prima istanza di un atteggiamento mentale di soggezione al dogma, l’eterna ricerca di ancoraggio a un riferimento esterno, che sia l’Accademia della Crusca o la conferma trovata su Google. Da qualche parte dev’esserci scritto che una determinata espressione è possibile, che qualcuno l’ha usata prima di noi. Altrimenti, meglio non rischiare.
A rivelarmi la solidità di questa gabbia mentale fu il più grande nemico con cui lottavo insegnando inglese agli italiani: la grammatica. È noto che il metodo più rapido ed efficace per imparare una lingua straniera è quello che ripercorre l’apprendimento naturale del bambino, un processo basato su tre componenti essenziali: imitazione, intuizione, emozione. Idealmente, dovremmo iniziare giocando a ripetere astrusi fonemi, senza la minima idea di cosa significhino. Di fronte a questo invito, però, gli adulti provano noia e imbarazzo, si devono quindi offrire loro riferimenti semantici (immagini, associazioni, frasi d’uso comune…) per evocare un senso di competenza e controllo. Questa concessione, purtroppo, li stimola invariabilmente a chiedere di più. Dateci la grammatica! si lagnano. Devo sapere se strong è un aggettivo o un avverbio, se è maschile o femminile!
Esiste la convinzione tanto diffusa quanto, a pensarci, assurda, secondo cui un idioma sarebbe una sorta di emissione della sua grammatica, un fenomeno emergente. In qualche sfera iperurania, si troverebbe una grammatica progettata dalla mente divina, di cui la lingua parlata è manifestazione terrena. Di fatto, le lingue arcaiche sono maturate in seno a culture orali per millenni, senza che nessuno si fosse messo d’accordo su come farle funzionare. La grammatica è sempre un’invenzione, un’estrapolazione secondaria. È uno strumento elaborato dalle civilizzazioni in espansione per uniformare la comunicazione su vasti territori, ma non è necessaria per imparare a parlare, e può essere anzi d’ostacolo.
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Non ho mai sentito Carmen coniugare verbi a sproposito, cannare un congiuntivo, se la cavava alla grande con le costruzioni più avanzate. Libera da riferimenti scritti, la sua mente assorbiva dall’ascolto con piena ricettività, come la privazione della vista tende ad amplificare l’udito, il tatto, il gusto…
Ecco, mi piace pensare alla lingua come a un sapore, che ha una sua chimica misteriosa, e non dipende da quanto fedelmene si sia eseguita una ricetta, ma dall’apertura del cuore e dei sensi. Vorrei instaurare con la mia lingua il rapporto carnale e immediato che Carmen aveva acquisito nel suo villaggio di illetterati.
La visita al pueblo andino della famiglia di Carmen era stata organizzata in seguito alla morte di uno zio, di cui quel weekend sarebbe stato celebrato il funerale.
La notte prima della cerimonia si tenne la veglia del defunto, e tutto il villaggio si radunò attorno al fuoco per evocarne la memoria. Protagonista della scena era una bottiglia di rum, passata di mano in mano in cambio della condivisione di un ricordo, un aneddoto. La rievocazione del proprio legame col trapassato avveniva in poche battute mirate, declamate in una caratteristica cantilena, che acquistava intensità col progredire del tasso alcolico. Mi ritrovai proiettato in un rito tribale, di certo ben più antico del villaggio di fango, probabilmente inciso nelle radici africane dei suoi abitanti. È così che si sviluppa e mantiene un linguaggio personale, ricco di sfumature, emotivamente carico. Questo organismo può prosperare solo nella materia viva della conversazione, di una marginalità feconda e della ritualità del quotidiano.
A un certo punto della nostra storia, al contrario, si è deciso che l’italiano ammissibile era quella cosa che stava fra Manzoni e Mike Bongiorno. Ciò che contraddistingue lo spettro linguistico racchiuso in questo ventaglio è un’esigenza di presentabilità. L’italiano corrente mi ricorda una bella signora altoborghese, sempre elegante e austera, all’occorrenza alla moda ma senza eccessi, in fondo alienata da sé e dagli altri, vittima del suo stesso garbo. È una lingua improntata al formalismo, inoffensiva, adatta a tutta dal famiglia, in cui mancano espressioni veraci, insulti mordenti, che bisogna andare a pescare nel vernacolo o nel discutibile doppiaggio dei film di Hollywood.
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Adagiati sulla grande bellezza di una gloria passata, abbiamo lasciato che la nostra capacità di innovazione linguistica si assottigliasse quanto il nostro indice demografico. All’ombra delle cattedrali e dei monumenti che il mondo ci invidia, siedono sempre più vecchi e meno bambini.
Qualche anno fa notai in libreria un saggio dal titolo intrigante, La manomissione delle parole, di Gianrico Carofiglio. Conoscevo l’autore per una serie di gialli ben riusciti, e pregustavo idee rivelatrici, ma ne rimasi deluso. Da una prospettiva fin troppo riconoscibilmente ‘di sinistra’, Carofiglio polemizzava con l’uso a suo dire distorto del vocabolario da parte di una determinata cerchia politica. Evidentemente, avevo inteso tutto al contrario. Per me la manomissione delle parole è fortemente auspicabile, e speravo di trovare nel testo argomenti a sostegno della mia linea!
Oggi più che mai avverto il bisogno di violare la lingua, spremerla, maltrattarla con amore come un impasto di uova e farina che bisogna spianare e ripiegare mille volte su se stesso, senza paura di sporcarsi le mani.
A questo punto, sarebbe opportuno tirare le somme di questo articolo con una chiusa propositiva. Per un futuro di parole in libertà! Abbasso il vecchio e viva il nuovo! Resuscitiamo l’italiano! Morte ai professoroni!
Calma.
Il modo in cui il linguaggio muta nel tempo è avvolto nel mistero. Non è possibile stabilire a priori se un certo modo di dire entrerà in uso e per quanto tempo, e con quali conseguenze sull’impianto linguistico complessivo. Per quanto alcuni neologismi e neolinguismi (innovazioni sintattiche e variazioni grammaticali) siano ascrivibili a un determinato personaggio o ambiente, la maggior parte non ha un’origine nota. Non è mia intenzione promuovere un’eugenetica del linguaggio. Come in campo biologico, le migliorie studiate a tavolino rischiano di produrre creature sterili o mostruose.
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Piuttosto, vorrei invitare chi mi legge e soprattutto me stesso a instaurare un rapporto personale con la lingua, non subirla passivamente ma trovare il coraggio di farsi agenti di cambiamento, agitatori linguistici. Se sotto il palato senti fremere un’espressione un po’ strana, che devia dalla norma ma ti emoziona, usala. No stai compiendo un crimine. L’unico modo in cui potrai sapere se il tuo personalissimo uso del linguaggio ‘tiene’, è se verrà adottato da altri e trasmesso nel futuro. I puristi dell’italiano non hanno capito niente, non sono diversi da chi cerca consenso politico invocando una supposta purezza razziale.
E non preoccuparti di quanto è solida la tua conoscenza della grammatica, o almeno non fare che questo diventi un fattore di insicurezza. Di tanto in tanto, fai in modo di scrivere senza consultare Google o ChatGPT, metti da parte i dizionari e datti il permesso di sbagliare. Come le mutazioni genetiche, che nell’arco dei millenni trasformano le specie viventi fino a renderle irriconoscibili dall’organismo originario, i cambiamenti più importanti che introduciamo nel linguaggio saranno quelli di cui siamo portatori inconsapevoli.