VOULEZ VOUS

È pomeriggio tardi, a Saione.
Saione-Malpighi-Tortaia, Parco del Pionta-Tortaia, zona Stadio, poi verso Staggiano e La Mossa, poi, di nuovo Saione.
È cominciato ieri sera, per la questione dei piatti. Ho aperto la credenza e c’erano tutti i piatti impilati male. I piattini da dessert al posto delle ciotole, una torre di fondine direttamente sopra ai piani.
«Lo vedi con che mi tocca fare i conti?» ho detto voltandomi verso mia suocera.
L’ho detto piano, lo giuro, senza risentimento. E lei ribatte feroce:
«Fossero queste le cose di cui preoccuparsi!»
«Era solo una constatazione», ho detto. «È una questione oggettiva. Perché devi prendere sempre le sue parti?»
«Perché tu pensi di non avere difetti?»
Non è una domanda, è un’offesa. Il suo tono di voce è alterato, umiliante.
«Datti una calmata. Siamo pur sempre in casa mia!» ho gridato, senza riuscire più a tenermi.
«E me l’hai fatto capire per bene, che non sono la benvenuta», ha detto alzandosi, con la faccia stravolta. «Domani torno a Firenze!»
Tornatene dove cazzo vuoi, puttana. Auguri a prendere il treno, il 28 dicembre. Io alla stazione non ti ci porto. Lurida stronza, bigotta e rincoglionita.
Sono trentasei anni che sopporto tua figlia. Cazzo!

Giacomo ha ventun anni, va all’Università. Il vero problema è Spino, che ne ha ancora quindici. È venuto fuori tardi. Tutt’e due sono venuti tardi, se è per quello. Fossero venuti prima, almeno cinque anni prima, adesso…
Ma che dico?
Vera è l’amore della mia vita.
È solo una crisi. Una crisi come tutte le altre.
Il vero problema è sua madre.

1



È buio, a Saione. Le strade sono deserte, bagnate, sporche, come abbandonate. Come fossero tutti morti.
Il vero problema è questa città, che è come una tomba.
Riprendo l’auto. Tortaia-Pionta, Malpighi, zona Stadio, poi ancora Tortaia.
Il vero problema.
Il vero problema è il tempo.
Trentasei anni e mai un’altra donna, l’odore di un’altra fica. Dalla terza liceo fino alla tomba.
Sto diventando vecchio, sempre più in fretta.

Alla Vigilia siamo stati a una cena organizzata dal parroco, c’era tutto il paese. C’era anche quel dottore calvo, il ginecologo. Era seduto accanto a me. Non è uno di qui, mi pare venga da Siena. È entrato al S. Donato che saranno quindici anni. Ha messo subito incinta un’infermiera, fresco di divorzio. Poi hanno avuto un’altra figlia, ma l’infermiera è morta l’anno scorso di leucemia. È abbattuto, poraccio, si vede. Due ragazze da crescere da solo, i turni di notte, i tagli al personale. Però penso che presto se ne farà un’altra. Magari un altro matrimonio, il quarto… A un certo punto si gira e mi fa:
«Ma te come fai? Capisco l’amore ma insomma, non sei un po’ curioso?»
Doveva essere brillo.
Mi sono sentito gelare il sangue. Chissà che faccia gli ho fatto, che ha subito cambiato discorso.
La grande ci era seduta davanti, nella tavolata.
«È una brava ragazza, ma non so proprio che fare», m’ha detto. Lei non sentiva, la sala era piena di voci. «La invitano a tutte ‘ste feste. Praticamente le faccio da autista. Mi sembrano ragazzi a posto, ma insomma ha quattordici anni. Adesso fanno queste macchinette elettriche, hanno la targa di un motorino. Che dici, gliela compro?»
«Non so», gli ho detto, distratto, pensavo ancora alla domanda di prima.
Poi ho guardato la figlia, Sofia. Giunonica, alta, in effetti, di anni ne dimostrava almeno diciotto. Aveva il viso di un’attrice del passato, che aveva fatto dei film un po’ erotici che era ancora una bambina. Mi sfuggiva il nome ma poi l’ho cercato: Phoebe Cates, e il film era Paradise. Però questa ha un’espressione più austera, davvero da brava ragazza. Aveva le unghie dipinte di rosso Natale, con minuscole stelline bianche.

2



Vera non si tingeva le unghie. L’avevo notata per quello, mi piaceva. Non si truccava nemmeno, era l’unica della classe a non farlo. Molto tempo dopo, quando eravamo già sposati da un pezzo, iniziò a mettersi della matita intorno agli occhi, una riga nera sottile, solo quando si usciva la sera.
La tenuta diurna invece non l’ha mai cambiata: jeans stretti e polacchini, camicia a scacchi, coda di cavallo, occhiali. Del resto, è un abbigliamento adatto a lavorare in una ferramenta.
Poi a Vera piace camminare. In pausa pranzo a volte passeggia per i colli, e così indossa già le scarpe giuste.
A volte cammina per diversi giorni. Prenota una serie di rifugi in Valle Santa, ad esempio, e sta via una settimana.
La ferramenta era di mio suocero, Umberto, venuto qui da Firenze si vabé ma chissenefrega…

Il problema è che mi piacerebbe scopare. Scopare con una donna che non sia mia moglie.
E sono qui a cercare una puttana, diciamo la verità.
Ma ad Arezzo manco le puttane si trovano, il 28 dicembre.
Almeno devo mangiare qualcosa, sono quasi le dieci.
Parcheggio all’Eden. In un giovedì sera normale, a quest’ora sarebbe al completo. Invece ci sono solo sei macchine. Attraverso i giardini del Porcinai fino a Piazza della Repubblica. A ogni panchina c’è un capannello di accattoni tossici nordafricani. Prendo via Guido Monaco verso il centro. Le vetrine sono spente e la strada è completamente vuota. Non è che pretenda di trovare un ristorante aperto, basta un trancio di pizza per riempirmi lo stomaco.
Arrivato alla grande rotonda di piazza Guido Monaco, mi trovo alle spalle tre neri in abiti pesti, le teste coperte dai cappucci dei giacconi. Vanno a passo spedito e mi raggiungono. Mi sposto di lato sul marciapiedi e anche loro si spostano, schiacciandomi verso le case. Dal viale svolta una Yaris che accosta al cordolo abbassando i finestrini oscurati:
«Andate a lavorare, porco Dio!» grida uno dei quattro a bordo.

2



I neri si voltano tesi, serrando i ranghi. L’auto riparte in sgommata.
«Fasisti!» grida il più alto, scoprendo una chioma di treccine corte.
La Yaris inchioda all’angolo. Nessuno scende. I neri non avanzano, né si danno alla fuga.
Devo tenermi alla larga.
Poco più in là, l’insegna del Chicken Taste è accesa. Corro dentro e sono investito da un odore di olio raffermo e cumino.
Un uomo in cappotto grigio, un riporto a coprire la pelata, è seduto al tavolo accanto all’ingresso, di spalle. È chinato su una vaschetta di pollo fritto dall’aspetto poco invitante.
Mi avvicino al bancone e ordino un chicken biriani, se il pollo è immangiabile almeno c’è il riso. Ho fame.
Mi volto a prendere posto e vedo che l’uomo accanto all’ingresso è qualcuno che conosco. Si chiama Silvio Sangiorgi, è un compagno al modulo RSPP sulla sicurezza aziendale che frequento il giovedì sera. Sento l’impulso a dileguarmi senza aspettare il mio ordine. Ho detto a casa che uscivo per andare al corso, mentre in realtà era sospeso per le vacanze. Temo che scoprano l’inganno, ma è una cazzata, Sangiorgi non conosce la mia famiglia, non c’è alcuna possibilità che mi possa sputtanare. Il fatto è che non mi è proprio simpatico, non ho la minima voglia di fare conversazione, specialmente stasera. In ogni caso, mi ha visto.
«Germano!» mi saluta a voce già troppo alta, allargando le braccia senza ragione. «Finalmente un po’ di compagnia», aggiunge indicando il suo tavolo.

Mi siedo davanti a lui.
Per strada non c’è più traccia di disordini. Chissà chi ha mollato per primo.
«Che ci fai qui?» mi chiede Sangiorgi «Non sei a casa coi tuoi?»
«Credevo ci fosse lezione, sono uscito per niente, ho trovato la serranda abbassata.»
«Non segui la chat?» dice con la bocca piena, le dita unte, il viso riverso sulla vaschetta di polistirolo.
«M’è sfuggito.»
Il mio biriani è pronto. Mi alzo e torno col vassoio, prendendo una Ichnusa dal frigo.
«E tu invece, come mai non sei in famiglia? State a San Zeno, giusto?» - Ci saremo parlati tre volte al massimo.

3



«Sono tutti in montagna, a Molveno. Io devo chiudere la contabilità, resto in ufficio dal ventisette al trentuno.»
«Che sfiga.»
«Mica tanto. Non è che mi dispiaccia. Un po’ di libertà. La sera me la godo… Ne ho bisogno.»
«E chi non ne ha?» mi lascio sfuggire.
Sangiorgi non mi fa finire la frase.
«Fammi compagnia!» esulta. «Ci facciamo serata insieme.»
«Ma quale serata, Sangiorgi? In questo mortorio… Non c’è in giro un’anima. Poco fa ho rischiato la pelle.»
«Ahah, perché tu non conosci un cazzo! Non conosci un cazzo di cazzo! Ti porta in giro Silvio.» Le mani si staccano dal cibo e si incurvano ruotando all’interno, in un gesto autocelebrativo. Un sorriso furbesco si apre sul viso di Sangiorgi, i denti impastati di grasso di pollo. «Ecco però, fammi un favore», conclude quasi stizzito, «chiamami Silvio.»

Camminiamo per pochi isolati, fino a un portone bianco accanto a una gelateria. «Clandestine», riporta una targa minuscola.
«Questo posto è fico quando è aperto», dice Silvio bussando. Poi mi si avvicina all’orecchio e bisbiglia, «ma è ancora più fico quando è chiuso.»
Ci apre la porta un giovane con la barba nera e un anello d’oro all’orecchio. Dietro all’ingresso si stende un corridoio stretto e lunghissimo, che termina in un sontuoso salotto con divani e poltrone in pelle. Oltre alla musica da piano bar, che ci invita dal fondo del locale, mi colpisce l’odore di fumo di sigaro. Addentrandoci, ci immergiamo in una nebbia densa che disegna spirali voluttuose al nostro passaggio.
«Sarò passato di qui mille volte», dico, «e questo locale non l’avevo mai visto. Ma è permesso fumare?»
«Normalmente no, ma questa è la cigar night, solo per i soci… Non preoccuparti, sei amico mio.»
Silvio mi mette una mano sulla spalla, e con l’altra indica una ragazza dietro a un banco di mogano. Ha la pelle dorata delle creole, e indossa un’uniforme da cameriera che odora di colonie caraibiche. Con un gesto ci invita a scegliere un sigaro da una dozzina di scatole aperte sul piano.

4



«Prendi pure!» mi incoraggia Silvio, «È tutto gratis. Si paga solo da bere.»

Pochi minuti dopo, dopo esser passati dal bar, siamo seduti su due poltroncine sul retro, accanto al pianoforte. Nel salotto sfarzoso non c’era più posto.
«Ci credo che ti regalano i sigari», commento. «Trenta euro per un drink!»
«Ma che, hai problemi di soldi?» Ecco cos’è che mi sta sul cazzo di Silvio Sangiorgi. Qualunque cosa dica, ha sempre l’aria di sfotterti. «Ma lo sai quanto costa la membership annuale?» Mi fa segno sventolando le dieci dita nell’aria. «E tu sei qui praticamente a scrocco. Di che ti lamenti?»
Mi sdraio sullo schienale e aspiro dal grasso Cohiba che Silvio ha tranciato per me con una piccola ghigliottina in legno, ce ne sono su tutti i tavolini. Bevo un sorso di whiskey, che ha un sapore eccellente, di affumicato. Intorno a me non c’è nessuno che conosco, per fortuna. Hanno tutti l’aria di persone benestanti, alcuni in abiti formali, altri più casual. Ci sono anche delle donne vestite molto eleganti, ma poche.
«Siamo quasi tutti uomini», osservo.
«Beh, la cigar night… ti meravigli? Ma il punto è un’altro: qui si viene per star fra di noi. Qui nessuno vede niente, mi spiego?»
«In che senso? Sono prostitute?»
«Macché scherzi? No! Il Clandestine non è mica un posto di troie. Queste sono le amiche, capito? Qui non ci si viene con la moglie, né con la tua né con quella di un altro. Ma con una di fuori sì, e nessuno vede niente.»
«Anche tu hai un’amica?»
«Ungheria. L’ho conosciuta alla fiera del legname di Budapest. Passa qui qualche mese all’anno, le affitto un appartamento. Il resto del tempo sta a casa sua, ha la madre malata. Ma vengo qui volentieri lo stesso.  Mi distende i nervi. A volte si fanno degli affari. E tu, ce l’hai un’amica? Secondo me no, hai sempre l’aria mesta. Mi hai sempre fatto un po’ pena, sai», dice accasciandosi sulla poltrona, con le gambe incrociate e il sigaro fra i denti.

5



«Grazie per la sincerità.» Sono io stesso sorpreso del contegno che riesco a mantenere. Il whisky mi tiene calmo, il pianoforte è molto rilassante. «In realtà sono molto felice con mia moglie.»
Appoggio il bicchiere sul tavolino, e mi rendo conto che in realtà, il mio contegno, è pura vigliaccheria. «Era la mia fidanzata del liceo, non sono mai stato con un’altra donna in vita mia», aggiungo d’un fiato.
C’è un momento di silenzio.
Poi c’è un rumore volgare e vedo Sangiorgi irrigare il tavolino con una nuvola di cognac atomizzato.
«Scherzi! Pagliaccio, mi prendi per il culo?» Dice torcendosi dalle risate. «Sei praticamente vergine!»
Non so come, all’improvviso quell’essere abbietto mi appare come il miglior confidente possibile. Sento l’impulso di lasciarmi andare, il bisogno.
«Si, hai ragione, hai centrato in pieno, vedi. Dopo un po’, diventa proprio come essere vergine. Anche se volessi andare con un’altra donna, sinceramente, non saprei da dove cominciare. Mi sembrerebbe strano toccare un corpo diverso da quello di Vera. Forse anche sbagliato. Credo mi sentirei in imbarazzo.»
«Ti ci vuole una professionista. Ti farà uscire dalla depressione.»
«Chi ha detto che sono depresso?»
«Se adesso mi dici che il sesso con tua moglie è una bomba, ti sputo in un occhio. Se mi dici che non è importante, ti sputo in tutti e due. Ecco, lo vedi? Guarda la faccia che hai fatto. Anche il rapporto con lei non potrà che guadagnarci, credimi.»
«Forse hai ragione. In ogni caso, non saprei a chi rivolgermi. Ricordo che anni fa vedevo delle puttane sulle provinciali. Adesso non ce ne sono più, mi pare.»
«Lavorano tutte da casa, più comodo. Ma non ne vale la pena credimi. La cosa migliore sarebbe trovare una escort online, ma stasera è troppo tardi.»
«Stasera?»
«Certo, coglione! Se perdi lo slancio è finita, fidati di zio Silvio. Ti porto io nel posto giusto. L’hai mai sentito l’Aquarius?»
«Il locale delle pornostar?»

6



«Si.»
«Pensavo fosse una sòla.»
«Ma che cazzo dici? Fanno degli spettacoli top, viene la gente dalla Svizzera.»
«Va beh, mi guardo un film porno, senza far tutta sta fatica.»
«Ma poi le ragazze scendono, capito? Vengono al tavolo.»
«A spremerti il portafogli per due chiacchiere.»
«Per mettersi d’accordo, coglione. Di che pensi che campino? Non costano poco, ti avviso. Ma tu non hai mica problemi economici, no? Sei direttore commerciale.»
«E la ragazza ci sta di sicuro?»
«Non è obbligata, se è questo che intendi. Ma perché non dovrebbe? È lì per quello. Tu non sei mica così male. Non sei neanche tanto vecchio, cos’avrai, cinquantacinque anni…»
«Cinquantatré.»
«Ecco vedi! Praticamente, per gli standard dell’Aquarius sei un gran fico. Trovare un cliente come te per il dopo serata, per una di quelle è come vincere la lotteria. A loro piace scopare, che ti credi, che han scelto quel mestiere per caso? La ragazza in questione avrà tutte le ragioni per starci con te. Gode, si mette in tasca un po’ di grana, e non deve inghiottire niente di troppo schifoso.»

Usciamo dal Clandestine che è mezzanotte passata.
Devo chiamare Vera. Di norma, rientro dal corso verso le undici.
«Sono uscito adesso dalla Formart», dico, «a fine lezione si è aperto un discorso che è andato per le lunghe.»
«Mi stavo preoccupando, potevi avvisare.»
«Scusa, mi sembrava brutto tirare fuori il cellulare, il ragioniere si è trattenuto per noi. Adesso però Sangiorgi ci ha invitato a casa sua per un wine tasting, ha una vigna vicino a San Zeno.»
«Sangiorgi? Chi è?»
«Non lo conosci. Ma vanno quasi tutti, pensavo di unirmi anch’io, tanto domani sono a casa.»
«Ah, Ok. Allora torni tardi…»

7



Vera segue un certo numero di maestri olistici. Un paio di volte l’anno partecipa a dei ritiri di crescita personale. L’ultimo era sul tema della fiducia, con un monaco giapponese che insegna a tirare con l’arco bendati. In questo momento starà facendo ricorso a qualche esercizio Zen per dissipare il sospetto e la paura irrazionale.
«Si, non aspettarmi.» Sento nella mia voce un tono poco convincente, ma confido nell’influenza del maestro giapponese. «Metti pure l’allarme. Lo disattivo io quando torno.»
«Ok. Non bere troppo.»

Viaggiamo per una mezzora fra svincoli e provinciali, la mia auto dietro a quella di Sangiorgi, così evito di impostare il navigatore, e non dovrò preoccuparmi di cancellare la cronologia.
Arriviamo a una zona industriale, capannoni in rovina accanto ad altri nuovi di zecca. Parcheggiamo in uno spiazzo accanto a una sfilza di auto scure, lucidate di fresco. L’insegna dell’Aquarius è apposta a un traliccio sopra l’ingresso, modesta, sembra fatta di cartone. Potrebbe essere il marchio di una ditta di rubinetterie. Accanto al portone, però, un gigante in abito da sera non lascia dubbi sulla missione del locale.
Sangiorgi lo saluta con familiarità mentre il gigante, impassibile, non sembra vederlo. Sangiorgi non supera il metro e sessanta, ha una faccia insulsa. Lasciati cappotto e sciarpa al guardaroba, sotto indossa uno spezzato dozzinale. Lo seguo mentre scosta il sipario di velluto nero che ci separa dall’interno del club.
Dentro, è così buio che al principio procedo a tentoni, temendo di urtare qualcosa. Poi l’ambiente si allarga e siamo guidati da alcune isole luminose: al centro del salone c’è un bar rettangolare circondato da tavolini, in gran parte già occupati - gruppi di uomini, uomini soli, tre o quattro coppie. Più avanti c’è una pista da ballo con luci stroboscopiche, al momento poco frequentata. Subito, però, lo sguardo è attratto da una vetrata che occupa un terzo della parete laterale. Ora colgo il senso del nome del locale: è un acquario, o almeno lo sembra. Il fondale è dipinto con alghe, anemoni e coralli, ma al posto dei pesci ci nuotano le ragazze. Si tuffano da un muretto di piastrelle al piano di sopra, appena visibile dal basso, nude, fanno qualche bracciata trattenendo il fiato, poi riemergono e si danno il cambio. A volte si abbracciano sott’acqua, sorridono e salutano i clienti.

8



Insisto per sederci a un tavolo vicino alla vasca. Senza mezzi termini, sono ipnotizzato. Osservo il sali scendi di corpi, slanciati, prorompenti, giovani o più maturi. Mi pare di contare in tutto otto ragazze, a occhio fra i venticinque e i cinquanta. Tutto ciò che ho intorno scompare. I miei occhi sono magnetizzati dai movimenti delle mani, delle cosce, rallentati dalla resistenza del fluido, i seni che ondeggiano nell’assenza di gravità.
«Oh!» mi scuote Sangiorgi. «Vado al bar, te che prendi?»
«Una vodka tonic.»
«Puah!»
Mentre Sangiorgi si allontana, una delle ragazze si tuffa nella piscina vuota. Si ferma al centro della vetrata, premendoci sopra le mani per ancorarsi. Ha un corpo minuto, i seni piccoli e sodi, senza ritocchi. Guarda fuori e, per un istante, ho l’impressione che i nostri occhi si incontrino. Appoggia le labbra al vetro. Mi pare strano che possa vedermi: è buio, e la sua vista è appannata dall’acqua. Eppure sembra guardare verso di me, mentre i capelli neri si irradiano fluttuanti attorno al suo viso.
Seguendola uscire dall’acquario, mi accorgo che le altre ragazze sono sparite. Sangiorgi torna coi drink, e dietro la pista da ballo si accendono i riflettori di un palcoscenico. Un presentatore in frac si avvicina al microfono.
«Comincia lo spettacolo!» dice Sangiorgi sfregandosi le mani, ma la presentazione va per le lunghe, rivelandosi un monologo comico. Non ascolto nemmeno una battuta. Sento il pubblico ridere mentre conto i minuti, pensando a Giacomo e Spino. Il grande è a casa per le vacanze e stasera ha portato il fratello minore al River, la discoteca dei ragazzini, vicino a Poppi. È un’ora di auto e mi chiedo se siano rientrati, sono quasi le due di notte. Vorrei chiamare Vera ma per farlo dovrei uscire, così che non senta i rumori in sottofondo, e non voglio perdere l’inizio dello show. Indugio, e quando sto per alzarmi sento l’applauso finale, il comico lascia il palco e parte un ritmo dance.
Non riconosco il pezzo, ma appena attacca il cantato sono quasi certo si tratti degli Abba. Quattro ragazze entrano in scena dalle quinte, due per ogni lato. Con falcate da cerve si avvicinano al centro del palco, dove è comparsa una grande cassaforte di plastica. Fasciate in tutine di spandex nero e mascherine sugli occhi, fingono di armeggiare con un trapano per scassinare il portello, che si apre ruotando la classica maniglia a timone, mostrando diamanti e gioielli all’interno. Se ne riempiono le mani e ci giocano, mostrandoli al pubblico e strofinandoseli addosso.

9



«Voulez Voooous?» Cantano gli Abba. Sono senz’altro loro, dev’essere un successo minore.
Entrano in scena le altre quattro, mascherate da poliziotte. Le ladre fanno per fuggire, afferrando quello che possono del bottino. Ne nasce un parapiglia danzato in cui si simula un arresto. Poi tutte quante si schierano per un balletto sincronizzato.
«Voulez Voooooooous? Ah-Ha!» il verso si ripete allo sfinimento, con le ballerine che puntano l’indice verso il pubblico, poi lo piegano verso di sé ritmicamente, come un invito, e infine portano le mani ai fianchi ancheggiando. Si muovono disinvolte, disinibite, sembrano felici.
«Questa è la sigla di apertura. La fanno sempre», la voce di Sangiorgi mi arriva come una stecca in una sinfonia. Annuisco senza voltarmi, incantato dalla ragazza che mi ha guardato dall’acquario. Continua a fissarmi, ora ne sono certo. Mi sorride. Ha una bellezza insolita. Un piccolo spazio fra gli incisivi, le ciglia e le sopracciglia fin troppo folte, la fanno assomigliare vagamente a Madonna. Ma la chioma corvina, scompigliata, mi fa pensare a una strega. Quando punta il dito, è me che punta, come se mi vedesse, in mezzo a tutta la platea, solo me.

La retata si conclude con l’ammanettamento delle ladre, che vengono quindi portate in ‘prigione’. Due brande rimpiazzano la cassaforte rimossa dalla scena, su cui calano delle catene dal soffitto. Parte un pezzo che stavolta riconosco: è Alibi, dei Subsonica.
«Che ti avevo detto?» dice Sangiorgi cogliendo la mia sorpresa. «Mica male, eh…»
Con gesti coordinati e naturali, le poliziotte fissano le ladre alle catene e cominciano a spogliarle. Ognuna si occupa della propria prigioniera, baciandone ogni parte del corpo che viene scoperta. Poi i ruoli si invertono e le ladre, libere e nude, spingono le guardie sulle brande sottomettendole alla legge del piacere.
«Adesso si vanno a risistemare nei camerini», mi dice Sangiorgi quando il numero sta per finire. «Poi vengono ai tavoli. L’hai vista la mora?»
«Quale?»

10



«Quella che t’ha guardato tutto il tempo. Mi sa che sei fortunato. Mi pare si chiami Miriam, aspetta…» Sangiorgi si alza e afferra un cameriere per il braccio: «Scusa, ci puoi chiamare Miriam?» chiede senza riguardi.
«No, ma che fai?» Lo trattengo tirandolo per la giacca.
«Che c’è? Non ti piace?»
«Si, si. Mi piace, ma…»
«E allora qual’è il problema? Se non ti sbrighi te la fotte un altro.»

Per venti minuti aspetto, trepidante, l’uscita delle ragazze, chiedendomi se davvero Miriam verrà al nostro tavolo, e cosa farò trovandomela di fronte. Ordino un altro vodka tonic.
«Sai», confido a Silvio per ingannare l’attesa, «sto pensando a una cosa piuttosto triste. Forse non è stato l’amore a far durare il mio matrimonio per tutto questo tempo, ma la timidezza. Fin dall’inizio è stata Vera a prendere l’iniziativa. E io mi ci sono adagiato. Perché in fondo le donne mi han sempre fatto paura. Che le dico a questa quando arriva qui?»
«E che devi dirle, Germano? Non importa, quello che ti viene.»
«Ma io non sono spavaldo come te, non mi viene niente.»
«Allora falle delle domande. Alle donne non importa quanto sei intelligente, vogliono solo qualcuno che si interessi a loro.»
«Ah, ok. Non ci avevo mai pensato.»
«Però senza esagerare. Non è che ti devi fare i cazzi suoi, intesi? Eccola, arriva» dice alzandosi. «Vi lascio soli. Vado a cercarmene un’altra, anche se stasera mi dice male.»

«Sei tu che mi hai fatto chiamare?» chiede Miriam avvicinandosi al tavolo. Indossa un paio di mutandine in latex bianco e un top in chiffon semitrasparente. Al collo ha una piccola lametta d’argento.
«Si, il mio amico.» Mi alzo anch’io, faccio per scostarle la sedia ma mi precede. «Nel senso, il mio amico ti ha fatto chiamare per me…» Mi guarda perplessa. «Ti va di sederti a bere qualcosa?»
«Certo.»

11



«Scusami. È la prima volta che vengo qui. Come funziona? Devo ordinare dello Champagne?»
Ride, spontanea, senza malizia.
«Se proprio ci tieni! Ma lo Champagne te lo faranno pagare una fortuna.»
«Tu che vorresti?»
«Tony!» Fa cenno a un cameriere di passaggio, «Mi puoi portare un Virgin Mohito?»
«Siete tutte molto brave», dico forzandomi a guardarla negli occhi. «Non me l’aspettavo. Le coreografie, la scelta musicale… complimenti.»
«Grazie. Facciamo un sacco di prove.»
«Ti trovi bene con le altre ragazze? Sembrate molto affiatate.»
Mi guarda stranita, senza rispondere, sorseggiando il Mohito che intanto Tony le ha portato.
«Sai, sei diverso. Non hai l’aria del cliente Aquarius. Non lo dico a tutti, lo giuro.»
«Anche tu non hai l’aria della… come vi chiamate fra di voi? Voglio dire, la professione…»
«Già, ci sono tanti nomi diversi.»
«Non importa. Posso chiederti quanti anni hai?»
«Trentasette.»
«Ma dai! Avrei detto dieci di meno.»

Conversiamo a lungo senza difficoltà. Miriam è simpatica, spigliata, avverto subito una grande confidenza. Parliamo di tutto tranne che di famiglia. Ha viaggiato, ha vissuto a Londra e Parigi. Il suo lavoro non è male, mi dice. Aveva sempre voluto fare la showgirl, qualunque cosa significhi, e non ha ancora mollato le speranze. Per questo non ha mai fatto il porno, al contrario delle altre. Con quello ti bruci ed è finita. Spesso va a Roma per dei provini, ha fatto un paio di cosette in Rai. Mostrare il suo corpo le da gioia. Presto mi dimentico di dove sono, è come avere davanti un’amica che conosco da una vita. Inevitabilmente, finisco per voler dire più di me.
«Sono sposato da trent’anni. Ho due figli grandi.»

13



Miriam non risponde, non commenta. Mi porta una mano alla guancia e mi accarezza. Ho l’impressione che stia per invitarmi a baciarla, quando Tony si presenta al nostro tavolo.
«Perdoni il disturbo, signore. Il signore laggiù desidera offrirle da bere. È il nostro whisky migliore, Glenfiddich 26 anni.» Sposta il bicchiere dal vassoio al tavolino, raccogliendo il mio vuoto. «Chiede se possibile di passare a salutarlo, quando lo ritenga comodo.»
«Grazie.»
Guardo nella direzione indicata dal cameriere, faticando a distinguere i volti nell’oscurità. Dopo qualche secondo, facendo mente locale, richiamo il nome di Alberto Maria Cariacci, proprietario di un affermato studio notarile del Valdarno.
L’azienda per cui lavoro, la Dynasteel, produce turbine per compressori industriali. Cariacci si è occupato di importanti operazioni di delocalizzazione in Cina e Medio Oriente.
«È tuo amico?» mi chiede Miriam.
«Non direi. Una conoscenza di lavoro. Non lo facevo un frequentatore di posti come questo.»
Come lo dico, mi rendo conto che il mio commento potrebbe suonare offensivo.
«Non intendevo dire che… Scusami, è meglio che vada subito a vedere che vuole. Mi sbrigo in un attimo, mi aspetti qui?»

Alto, brizzolato, sempre abbronzato e in abiti firmati, il notaio Cariacci è l’immagine del professionista di successo. Lo trovo a un tavolo da cinque con accanto una delle ballerine. Una bionda ossigenata dai capelli corti, tette siliconate e fisico scultoreo. Gli altri due hanno l’aria di sottoposti, una sedia è libera.
«Ingegnere», si alza. «Che piacere vederla, si sieda con noi, la prego.»
«Troppo gentile, dottore. Grazie per il drink. Giusto un momento, ero in compagnia.» Entrambi ci accomodiamo.
«Si, ho visto. Per questo mi sono permesso. Ma che gente frequenta, ingegnere?»
«È una ragazza del locale», rispondo sulla difensiva, guardando la biondina. «L’ho conosciuta stasera, veramente…»
«Miriam? Non parlo di lei, è una ragazza a posto. Quel tizio con cui è arrivato, Sangiorgi. Lo conosce bene?»

14



«Superficialmente. Ci siamo incontrati per caso ad Arezzo e siamo finiti qui.»
«Ecco, appunto, me l’ero immaginato. Perdoni l’intrusione quindi, ma me lo lasci dire: stia lontano da quel cialtrone. È un noto truffatore.»
«Davvero? Credevo avesse un mobilificio. Siamo compagni di corso alla Formart.»
«Veda lei, io l’ho avvisata, le consiglio di mollarlo appena può. A proposito, ha già in mente come concludere la serata? Immagino voglia portare Miriam da qualche parte. Qui all’Aquarius non hanno un privé.»
Solo ora realizzo questo risvolto dell’affare. Non so che ho pensato fino a questo momento, ero troppo concentrato sulla conversazione. Forse l’idea di un motel mi era balenata un paio di volte, oppure contavo di chiedere a Miriam un appuntamento nei giorni a venire. Guardo l’orologio: sono le tre e mezza.
«La vedo esitare», mi precede Cariacci, «e ne deduco che non ha programmi definiti. Se le fa piacere, può portare Miriam a casa mia. Facciamo un ultimo brindisi insieme e poi… ho tante stanze libere. Noi stavamo per andare, in effetti. Che dice?»

Seduto in macchina, mentre aspetto che Miriam si cambi e recuperi le sue cose, tiro fuori il cellulare.
Non ci sono messaggi, bene. Scrivo a Vera.
Ho bevuto tantissimo. Troppo ubriaco, non posso guidare.
Mi sdraio qui sul divano a smaltire.
Appena mi sveglio bevo caffè e riparto.
Tutto ok.

Sull’auto di Cariacci c’è solo la ballerina bionda, si chiama Annalisa. Gli altri due si sono dileguati.
In effetti, dopo l’ultimo whisky sono parecchio stordito. Non direi sbronzo, è la stanchezza appannata di tante dosi di alcol distribuite in altrettante ore di veglia notturna.
Appena Miriam sale in macchina sento risalire l’adrenalina. È bellissima, non so che ha fatto risistemandosi, ma ha un’aria radiosa, insieme carnale e sofisticata. Non riesco a credere di avere una creatura del genere accanto a me, nella mia auto. Dovrò arieggiare per disperdere il suo profumo.

15



«Non ti ho chiesto quanto mi costerà la tua compagnia», chiedo appena partiti.
«Infatti, sarebbe stato meglio accordarsi prima, ma la colpa è anche mia. Di regola, per un dopo serata senza orari chiedo duemilaecinque.»
«Ok.»
«A te però vorrei fare mille.»
«Ah, perché?»
«Così. Possiamo sistemare subito se ti va, così poi non ci pensiamo più.»
«Va bene, ma come facciamo? Non ho con me mille euro in contanti. Quando sono uscito di casa non aveo idea che sarei finito all’Aquarius»
«Non c’è problema.» Miriam tira fuori il telefono dalla borsetta e attiva il display. «Ho un’applicazione che funziona come un POS.»
Recupero il mio cellulare e apro la funzione carta di credito, poi lo avvicino al suo che emette il tintinnio di due calici di cristallo che si incontrano.
«Come fai con il fisco?»
«Pago le tasse... Un pochino.» Sorride maliziosa strizzando gli occhi. «Ufficialmente, raccolgo fondi per un ente di beneficienza.»
«Ma dai. Sai fare queste cose?»
«Io? No. Ha impostato tutto un mio cliente affezionato. È un dirigente dell’Agenzia delle Entrate.»
Facciamo forse dieci minuti di strada, non ho più il senso del tempo.
Superato il cancello, la villa del notaio è in fondo a un acciottolato che taglia un vasto uliveto. Una costruzione moderna, non il solito podere toscano. Sorpresa: sulla soglia del vialetto che conduce all’ingresso ci sono due guardie di sicurezza. Immagino ce ne saranno altre in ogni orario della giornata, per una sorveglianza h24. Sticazzi.
Cariacci mi fa strada in un disimpegno, spogliando Annalisa della pelliccia.
«Venga, ingegnere, per di qua», mi invita con grande cortesia.
Oltre la porta interna c’è un ampio salone con gradinata centrale. Le luci si accendono e spengono al nostro passaggio.
«Questa villa era dei miei genitori», mi dice mentre risaliamo gli scalini. «Costruita nel ’65 su progetto di Richard Meier.»
Cariacci mantiene un tono impostato che trovo ridicolo, considerate le circostanze. Non sembra intenzionato a passare al tu.
«Le stanze da letto sono qui al primo piano, può sistemarsi in quella che preferisce quando lo riterrà opportuno», mi spiega proseguendo lungo un corridoio percorso da numerose porte. «Là in fondo c’è un salotto privato, suggerirei di farci una tappa. Non so lei, ma io sento il bisogno di ritrovare un po’ di vigore».
Noto che si rivolge sempre a me, senza coinvolgere Miriam nella navigazione domestica, né lei sembra averne bisogno. Probabilmente è già stata lì. Sono travolto dall’immagine di Cariacci che fa sesso con Miriam, e provo un’assurda stretta di gelosia. È una prostituta, avrà fatto sesso con centinaia di uomini diversi, che differenza può fare.
Al termine del corridoio, si apre una stanza foderata in legno bianco, al centro due divani di velluto grigio disposti ad angolo retto attorno a un tavolino di cristallo. Prendiamo posto a coppie, e Cariacci preme il pulsante di un interfono appoggiato sul tavolino.

16



«Clara, portaci i rinfreschi», ordina piegandosi verso il microfono. Non c’è risposta, solo un paio di click.
«Starà dormendo», dice Annalisa.
«Già, le ci vorrà un po’ a prepararsi. Intanto…»
Cariacci si alza e raggiunge una cassettiera, da cui estrae un vassoio che regge una zuccheriera d’argento. Come l’appoggia sul tavolino, il suo volto ha una trasformazione. I lineamenti si fanno affilati, stira più volte il labbro inferiore scoprendo i denti, come in un tic. Scoperchiando il contenitore ricolmo di polvere bianca, le mani gli tremano vistosamente.
«Non abbia paura, ingegnere, questa è roba di una purezza fenomenale. Ti da la carica di un ventenne.» Parla ridendo fra sé, mentre stende quattro strisce sul vassoio a specchio, le mani che si muovono a scatti, quasi fuori controllo.
Per tirare, estrae dal taschino una cannuccia corta d’oro. Si piega sul tavolino e aspira la sua dose d’un colpo. Subito, si lancia indietro con un gemito, arrendendosi allo schienale del divano a occhi chiusi. Quando li riapre, sono iniettati di sangue. L’iride, solitamente di un azzurro etereo, è obliterata dalla dilatazione estrema delle pupille. Emette un risolino isterico.
«Avanti, che aspettate!»
La prima a seguirlo è Annalisa. Si avvicina obbediente allo specchio inginocchiandosi sul tappeto. Tira più lentamente, metà striscia in una narice, il resto nell’altra. Poi si tampona il naso e le labbra con le dita, senza muoversi da terra.
È il turno di Miriam. Cerco il suo sguardo, per capire se si trovi a suo agio con quel rituale, ma lo incontro solo per un brevissimo istante, rassegnato, sembra dirmi: «Sta al posto tuo, che io sto al posto mio.»
Si piega anche lei sulla polvere bianca, senza foga ma decisa, l’aspira nel cranio. La bocca si contrae in una smorfia compiaciuta. Apre gli occhi e il suo viso è accanto a quello di Annalisa, che si è chinata su di lei. Si baciano a lungo, come volessero divorarsi. Poi si tirano a vicenda al tappeto, spogliandosi l’un l’altra con gesti nervosi.
«Avanti, ingegnere, che aspetta? Siamo qui per divertirci», incita Cariacci, strofinandosi una mano sull’incavo dei pantaloni.
«Veramente, dottore, questo non l’avevo previsto. Non è mia abitudine…»

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Cariacci mi chiude la bocca con un’occhiata assassina. Mi sento soverchiato dalle circostanze, dai fasti della dimora isolata, dalla bramosia del mio ospite. Ogni briciola di eccitazione è svanita, il contorcersi delle due donne sdraiate mi appare una messinscena volgare, artificiosa, vorrei allontanarmi di lì. Il mio pensiero però va ai gorilla che sorvegliano l’ingresso. Ho come il timore che non mi lascerebbero andare. Probabilmente sto fantasticando, tuttavia, ho i brividi.
«Provi, su», insiste il notaio, di nuovo facendosi mite, sorridente, mentre mi porge la cannuccia dorata. «Una volta, non le potrà far male.»
Accetto la cannuccia, la stringo fra l’indice e il pollice mentre Cariacci molla la presa.
«Sia quel che sia», dico, avvicinandomi al tavolino.
Il tiro mi arriva diritto al cervello, con un bruciore sopra la volta del palato, in bocca un retrogusto amarognolo.
«Lavoriamo sodo, io e lei. Ce lo meritiamo, mi creda…» sento dire Cariacci mentre cerco di tornare in me. Al principio, mi pare che nulla sia cambiato. Non so che mi aspettassi. Sono sveglio, questo sì, come mi fossi appena svegliato. E guardando le ragazze sul tappeto provo qualcosa di diverso, un desiderio irrefrenabile. Entrambe hanno indosso solo la biancheria intima. Mi avvicino senza timore e appoggio la mano destra sulla coscia di una, la sinistra su quella dell’altra, palpandone la morbida lunghezza. Ho un’erezione prepotente, la voglia di tuffarmi in mezzo a loro.
«Bene così, ingegnere. Se la goda.»
Non so che stia facendo il notaio, resta sul divano, preferisco non guardare. Miriam si sgancia dalla compagna e mi tira a sé, togliendomi la giacca e poi sbottonandomi la camicia, mentre mi mette la lingua in bocca, sul collo, dentro alle orecchie. Ho le vertigini.
Rimasto a torso nudo, inizio a slacciarmi la cintura. Annalisa continua per me, aprendomi il bottone e la zip dei pantaloni. Anche lei mi bacia. Si sente bussare alla porta.
«Entra!» grida Cariacci.
Mi volto e rimango a bocca aperta. Sulla soglia c’è una figura surreale. Sto sognando. Una donna completamente nuda, eccetto un paio di collant arancioni, avanza reggendo un vassoio con una ciotola di caviale e una bottiglia argentata con scritto ‘Beluga’. La rete a maglie larghe del collant vela il sesso implume, liscissimo, simile a un frutto. La testa e il volto sono coperti da una maschera da coniglio.

18



Giunta al centro dei divani, si sporge sul tavolino per posare il vassoio. Cariacci le appoggia le mani sul culo e comincia a massaggiarglielo, poi le affonda il viso in mezzo ai glutei leccandole la vagina.
L’abbraccio fra Miriam e Annalisa si è sciolto, tutti siamo concentrati sulla donna coniglio. È la visione più erotica che si possa immaginare. Ha il bacino largo e la vita stretta, le cosce e le natiche incredibilmente sode. I seni hanno una forma allungata, a siluro. Una forma imperfetta e, per motivi imperscrutabili, oscena oltre ogni descrizione. La maschera è un oggetto raffinato, sicuramente costosissimo, rivestita di soffice pelliccia bianca. Gli occhi e il naso, invece, sono neri, della rete metallica dura degli elmi da scherma.
Cariacci arretra e si alza, guidando il corpo di Clara a prendere il suo posto e poi sdraiarsi sul divano. Le due ragazze non sono per nulla sorprese. Devono avere assistito a quella scena più volte, specialmente Annalisa che sembra una frequentatrice abituale della casa. Siamo ancora tutti e tre sul tappeto. Miriam si porta alle mie spalle e mi abbraccia: «È la sua schiava», mi sussurra a un orecchio, cogliendo il mio scompiglio.
Annalisa invece si alza e afferra la ciotola del caviale, immersa in un bagno di ghiaccio. Sa cosa fare: l’appoggia sull’ombelico di Clara, che al contatto del metallo gelato inarca la schiena in un sussulto. Con un cucchiaio, inizia a cospergere i seni e l’addome della donna coniglio. Lei ha i brividi, non si sa se per il freddo o per l’eccitazione, o la paura, o tutto insieme, la maschera bianca cela la sua espressività umana, infondendo all’operazione un’aura di morbosa sacralità.
Cariacci si allunga sul corpo disteso. L’intero torso, il pube e la pelvi sono coperti di pallini nerastri. Le lecca un seno e poi beve un sorso di vodka, direttamente dalla bottiglia. Indossa ancora l’abito e la camicia, ma non se ne cura. Anche Annalisa si fa avanti, Miriam si unisce dal basso e mi trascina nel banchetto. Una pozza di caviale si è accumulata proprio sotto alla fica, stretta fra le cosce chiuse. Senza freni, strappo la maglia del collant per arrivare ad attingervi. Il sapore del pesce si fonde a quello del sesso, le piccole uova scoppiano in bocca, effervescenti, ognuna donando una vita. Inebriato, raggiungo la bottiglia e ingollo due, tre, quattro generose sorsate.

19



Quando sollevo lo sguardo, il corpo di Clara è stato ripulito a fondo, per intero. Sento girare la testa, vorticosamente, devo avere esagerato con gli ultimi sorsi di vodka. Mi rialzo a fatica e mi siedo sull’altro divano, leggermente nauseato. Avrei bisogno dell’acqua ma non ho il nerbo di chiederla.
Il notaio è disteso sul divano con Miriam e Annalisa ai due lati, nude. Lo stanno spogliando come prima hanno fatto con me. Clara invece è seduta, sola, in attesa di ordini.
«Sa che c’è, ingegnere», dice Cariacci. «Penso che non la lascerò andare a scoparsi da solo la sua puttana. Ho voglia di orgia. Ho voglia di orgia da impazzire.»
Le pupille gli si sono ridotte a due capocchie di spillo sullo sfondo celeste, ha uno sguardo acuminato da lunatico.
«Ci penserà Clara a lei», dice spingendola con un piede giù dal divano.
Finita in ginocchio, la donna coniglio striscia verso di me, insinuandosi fra le mie gambe. Ho il pene flaccido e la vista sdoppiata. Temo un rigurgito improvviso e rigiro la testa all’indietro, ingoiando saliva. Sento le sue mani infilarsi nelle mutande e calarmele fino alle ginocchia. Mi scopre il glande e lo sfrega delicatamente sulla pelliccia setosa del muso. In pochi secondi mi torna duro, la sua mano ne percorre la lunghezza, inizio a godere e lei lo avverte, in qualche modo, sa che non reggerò a lungo. Si alza e fa per mettersi cavalcioni. Sollevo la testa e la vedo ergersi sopra di me, maestosa e mistica come una Dea. Poi guardo le sue mani guidare il mio membro verso la sua vagina, pronta alla danza.
«Ferma!» grido scostandomi, mentre la sollevo di peso e la ribalto sul divano.
Le afferro un polso portandomi la mano davanti agli occhi, inorridito: le unghie rosso Natale, le stelline bianche, non ci sono dubbi! La guardo fisso, severo, trattenendo le sue dita fra le mie, come aspettandomi che la maschera cambi espressione, permettendomi di leggerne i sentimenti, ora che sa che io so. Ma nulla accade.
«Vieni con me!» Le ordino sottovoce, trascinandola verso la porta. Cariacci è sdraiato sul divano, Miriam seduta sulla sua faccia, mentre Annalisa lo spompina. È troppo indaffarato per occuparsi di noi.
Tiro la donna coniglio lungo il corridoio, incontrando una debole resistenza, fino alla stanza da letto che mi ha mostrato il notaio all’arrivo.

20



«Lo so chi sei. Sei Sofia, la figlia del dottore! Eri davanti a me alla cena della Vigilia. Ti ho riconosciuta dalla decorazione delle unghie.»
La maschera mi guarda, indecifrabile, muta. Restiamo a lungo così, l’uno davanti all’altra, finché lei fa un movimento con la testa: NO. Ancora silenzio.
«Gesù Cristo! Hai quattordici anni, ma che ti dice il cervello? Che ci fai qui!»
Nessuna reazione, silenzio. Resto così per almeno un minuto, senza sapere che fare.
«D’accordo, togli la maschera, facciamola finita.»
Di nuovo fa no con la testa.
«Se non sei chi credo che sei, togliti quella cazzo di maschera. Altrimenti dovrò avvisare tuo padre, lo capisci? Se non sei Sofia, nessuno conoscerà la tua identità, mai e poi mai, te lo giuro sui miei due figli!»
La donna coniglio rimane immobile, non sembra intimidita. Non sembra nulla, un corpo senz’anima.
«D’accordo, l’hai voluto tu», dico avventandomi su di lei per smascherarla con la forza. Ma lei fa un passo indietro, schivando il mio affondo con destrezza. In un lampo, porta una mano sul retro della maschera, da cui estrae uno spillone da venti centimetri. Me lo punta dritto al viso, col braccio teso e fermo, avanzando verso di me. Mi costringe ad arretrare verso il letto girandomi intorno, fino a raggiungere la soglia della stanza. Quindi corre lungo il corridoio, sparendo dietro a una porta all’estremità opposta rispetto al salotto privato.
Rimango al centro del corridoio deserto, interdetto, per non so quanto tempo. Guardo l’orologio, sono le cinque meno cinque, l’alba è ancora lontana, il 28 dicembre.

Il vero problema.
Il vero problema è che non potrò mai raccontare a nessuno quello che ho visto. Né a mia moglie, né al dottore, a nessuno. La donna coniglio lo sa, e forse sta ridendo delle mie vane minacce. Anche lei, però, chiunque sia, non potrà mai rivelare di avermi incontrato. Questo pensiero malato mi rassicura.
Mi avvicino alla porta del salotto, da cui provengono ansimi concitati. Scosto piano l’uscio.

21



Il notaio è prostrato a pancia in giù sul divano, lecca la fica di Annalisa, sdraiata supina. Miriam, in piedi dietro di lui, lo sta penetrando con un dildo attaccato a una cintura di cuoio. Sentendomi entrare si volta. Scrolla le spalle, guardandomi con un sorriso desolato, senza fermare le spinte del bacino.
Raccolgo la giacca e la camicia, mi rivesto scendendo le scale.
«Tutto bene, signore?» Mi chiede una delle guardie mentre le passo accanto. Annuisco e raggiungo la mia auto. «Arrivederci», mi dice, che già sono di spalle.
Avvio il motore, e guido verso casa.
Mille euro.
Mille euro per un cazzo di bacio con la lingua.