MANNAIA
Febbraio non era il mese migliore per visitare i vichinghi. Eppure, una piccola folla si andava raccogliendo alle prime luci dell’alba nella cucina di Montefoco.
Erano lì per un’occasione speciale, un rito di gioia e di sangue, e il cerimoniale prevedeva che ognuno portasse in dono un oggetto di uso comune nel mondo civile, ma raro e prezioso in quel luogo remoto.
I vichinghi stavano in piedi davanti alla finestra, e gli amici che entravano si mettevano in fila intorno al tavolo che occupava il centro della stanza, attendendo il proprio turno per porgere l’offerta.
«Una mannaia!» disse Samuele esagerando la meraviglia col suo sorriso aperto da bambino. «Bellissima, grazie.»
«La chiamano ‘spacca-ossa’, è un coltello cinese da macellaio», lo corresse Lorenzo, che amava puntualizzare la ricercatezza dei suoi doni, «ma puoi usarla per tutto, affettare verdure, tritare l’aglio».
«Fa un po’ vedere. Accidenti» intervenne Eva afferrando il coltello per il manico affusolato che formava un unico blocco d’acciaio con la lama rettangolare, con un piccolo foro sull’estremità superiore. «Com’è ben bilanciata. Peserà mezzo chilo ma non lo senti.»
«Esatto, ma notate l’impercettibile curvatura della lama. Uno spettacolo! Non riesco più a cucinare senza.»
«Oggi avremo senz’altro modo di metterla alla prova», concluse Samuele, che si era riappropriato del regalo e aveva preso a passare il dito sulla lama affilata quanto un bisturi, facendola tintinnare come un diapason quando il polpastrello scivolava oltre il limite del filo.
Tin. Tin. Tin.
Tutti rimasero in silenzio per qualche istante, come se quel suono servisse loro ad accordare i propri strumenti per un imminente concerto.
Erano venute quindici persone per il giorno del maiale, la maggior parte delle quali non aveva mai ucciso niente di più grande di un’ostrica. Gossena, il centro abitato più vicino, si trovava a mezz’ora di strada da Montefoco. L’ultimo tratto era una ripida salita attraverso i boschi, un antico sentiero alpino di massi e radici sporgenti, percorribile solo a piedi o in fuoristrada. Quando Eva e Samuele organizzavano le loro adunate, sapevano di dover passare mezza giornata a trasportare avanti e indietro gli amici venuti dalla città, i cui crossover ben lucidati sarebbero rimasti parcheggiati sulla spianata davanti all’agriturismo il Gheppio, prima della salita finale.
Tin, tin, tin, tin, tin.
Samuele si era eclissato in un angolo della cucina. Cercava di ipnotizzarsi con quel tintinnio mentre si guardava i riccioli neri nello specchio che offriva l’acciaio della lama, senza esser sicuro di riconoscersi. Ne sarebbe stato capace? Eva, nel frattempo, riceveva altri regali: marmellate di corniolo, creme di nocciole e di pistacchi, vestitini per Tea, tre pacchi di riso e una bilancia.
Quando faceva il pastore, Samuele aveva scuoiato vecchie capre morte di parto, e in un paio di occasioni aveva trovato il coraggio per tirare il collo a una gallina. Ma un maiale giovane, sano, pieno di vita e grosso quanto un lottatore di Sumo accovacciato a terra no, non l’aveva mai ammazzato. Non si era mai nemmeno sognato di farlo.
Edo, cinquantotto anni, vedovo, il più anziano della comitiva, era l’unico a esser cresciuto in una famiglia di allevatori.
«Tra sei mesi torno e facciamo insaccati per tutto l’inverno», aveva detto a Samu quando li aveva visitati poco dopo il loro arrivo a Montefoco, portandogli due bei maialini da latte grandi quanto dei barboncini. Uno era tutto d’un colore, un marroncino marmoreo. L’altro aveva chiazze bianche e nere su sfondo rosa.
«Porto la pistola, che non vogliamo mica falli soffrire. Così impari a usarla.»
Prima di andarsene, Edo si era raccomandato di non dare dei nomi ai maialini, per non affezionarsi. «Son bestie intelligenti e affettuose più dei cani. Teneteli sempre nel porcile e andateci solo per pulirlo e dargli da mangiare. Come li lasciate uscire, vi si attaccano alle gambe in cerca di carezze ed è finita.»
Tea, però, non ne aveva voluto sapere. Proprio non riusciva a capire perché i gatti, i cani e le capre venissero chiamati per nome e i cuccioli di maiale no. «Come facciamo a distinguerli quando stiamo parlando di loro?» aveva chiesto ai genitori.
«Uno è del colore delle noci, e lo possiamo chiamare Noce», aveva risposto Eva convinta di cavarsi dai guai a buon mercato. «L’altro è macchiato, così lo chiamiamo Macchia.»
«Ok, ho capito: i loro nomi sono Noce e Macchia!»
Tin, tinnn…
L’acqua bolle!
Il richiamo tonante di Edo spezzò il brusio spensierato delle voci in cucina. Un fremito di anticipazione attraversò la stanza, e uno a uno gli invitati passarono per la stretta porta d’ingresso per raggiungere la zona dell’abbattimento, accecati dal passaggio dalla cucina in penombra al cielo velato di bianco del primo mattino.
Montefoco non aveva un vero e proprio cortile. I tre edifici che componevano il complesso colonico ottocentesco erano sparpagliati senza una logica apparente. La parte abitativa, affacciata su un’ampia vallata di prati e distese boschive, era disposta in modo da raccogliere il massimo di luce diurna dalle finestre.
Un po’ scostato e ad angolo, stava un altro edificio più piccolo, che offriva riparo alle capre e si apriva sul retro in un grande recinto. Dall’altro lato, verso la cascina, stava il forno dove Samuele cucinava ogni notte il suo leggendario pane di semi antichi, principale fonte di entrate di Montefoco. E accanto a quello stava il porcile, un antro a volta sbarrato da una solida cancellata che ricordava una prigione medievale.
«Quando l’acqua bolle si comincia il processo. ’Un c’è motivo di perdere tempo», sentenziava Edo accanto al bidone fumante, istruendo la platea con lo stivale di gomma appoggiato su un masso, come il sergente di un film sul Vietnam.
Giorgio e Silvano, gli amici più stretti di Samu, erano stati nominati assistenti. Al momento opportuno dovevano raccogliere secchi d’acqua bollente dal bidone per ripulire la cotenna.
«L’acqua serve ad ammorbidire le setole, che poi verranno raschiate con un apposito coltello», proseguì Edo indicando un grosso ceppo di legno che alloggiava una dozzina di lame di varie forme e lunghezze.
«Prima di tutto però, il maiale bisogna abbatterlo», disse sfoderando un aggeggio metallico dalla tasca della tuta blu da meccanico.
«Bisogna trovare il punto giusto del cranio.» Edo spostò lo sguardo rivolgendosi direttamente a Samuele, che stava in prima fila con le braccia conserte. «Ti consiglio di puntare l’arma qui al centro della testa», disse premendo l’indice sinistro sulla sua stessa fronte, come a volersi aprire il terzo occhio. «E mi raccomando, tenendola ben ferma e dritta. Capito?»
Lo sguardo di Samuele era agganciato alla Allen 22 con carica a molla che Edo brandiva nella mano destra. Non sembrava affatto una pistola, era un tubo d’acciaio brunito che somigliava alla spada laser di Luke Skywalker. Al posto di un’elegante lama di luce, però, ne usciva un perno retrattile. Un piccolo cazzo nero che appariva e scompariva in un battito di ciglia, con una tale propulsione da perforare il cranio di qualunque bestia vivente e dilaniarne i tessuti molli, portando istantaneamente l’animale a uno stato di coma cerebrale.
«Quando il maiale cade a terra, anche se si muove ancora un po’, senza perdere tempo lo si deve sgozzare con questa lama», continuava Edo estraendo dal ceppo un coltello stretto e ricurvo da trenta centimetri, simile a una piccola sciabola.
«Oh, ce sei? Samu, ce sei? Pronto, c’è qualcuno?»
«No, è che… Sto seguendo.»
«Ma ’un me pare proprio. C’hai lo sguardo stralunato. Guarda, se ’un te la senti lo faccio io.»
«No, ci sono. Ci sono.»
«Eh dài, de’, che qui nessuno deve fasse male. Eh, eh. Allora: la infili tutta, fino al manico, proprio qui.» Edo indicò il punto premendo il dito sull’affioramento della propria giugulare, al centro delle clavicole. «Poi la tiri fuori veloce spingendo con forza verso il basso, così da creare uno squarcio di una decina de centimetri. Fatto. A quel punto, se si son fatte le cose per bene, l’animale muore in meno di un minuto, senza patire quasi nulla. Oh, te lo metto qui eh, guarda bene.» Concluse riponendo il coltello sul bordo del ceppo, discosto dal resto delle lame.
La piccola folla di amici, disposta a semicerchio alle spalle di Samuele come il coro di una tragedia greca, osservava la scena col fiato sospeso. L’evaporazione biancastra dall’acqua bollente si mischiava al fumo nero dei carboni ardenti, addensandosi nell’aria invernale in una
nebbia scomposta, che sembrava attraversare le cose piuttosto che avvolgerle.
«Allora, lo vogliamo tirare fuori questo mostro?»
Edo si avvicinò a Samuele con una corda e, appoggiandogli l’altra mano sulla spalla, lo condusse fino all’entrata del porcile.
«Infilagli il cappio in bocca e stringilo intorno al muso, qui sopra fra gli occhi e il naso. Però attento che questo tira, scalcia e si dimena. Cerca di star calmo tu, almeno, perché se me lo fai agitare…»
In un anno, Noce e Macchia erano arrivati a pesare quasi due quintali ciascuno. Centottanta chili di grasso e muscoli coperti di sterco. Crescendo, ognuno dei due aveva tirato fuori una distinta personalità.
A Noce erano cresciute setole lunghe e dure come aculei, che si infittivano al centro del dorso in una criniera spettinata. Sul manto omogeneo erano comparse piccole chiazze nere, che ricordavano la pelliccia di una iena.
Macchia, come a volersi distinguere dal compagno, aveva mantenuto il pelo corto e lucido di un levriero. Era goffo e tondeggiante, dall’apparenza inoffensiva, e il manto multicolore lo rendeva innegabilmente simpatico.
Era chiaro quale dei due fosse il predestinato.
«Mettete la tuta, de’, che sennò te lo sporchi tutto il maglione della nonna.»
Samuele era alto e magro, eccetto la schiena larga quanto un barile, e sia d’inverno che d’estate indossava ruvidi maglioni fatti all’uncinetto da sua nonna.
«Ma no, che. Stai scherzando? Io sto così. Sto sempre così, mica mi cambio.»
«Mèttete la tuta te dico. Va’ che ce n’è lì una nella cassetta. Devi avere il doppio strato, che se questo mozzica poi le facciamo con te le salsicce.»
Oggi comanda Edo. Dovette ripetersi Samu mentre si infilava la tuta da meccanico blu, identica a quella di Edo a eccezione del logo stampato sul taschino. Non appena varcò il cancelletto del porcile, pensò che anche i maiali dovevano aver sentito puzza di morte, in quella tuta, perché si misero a correre impazziti e poi gli si gettarono addosso come mai avevano fatto.
Appena cercò di avvicinarsi a Noce con il cappio, Macchia gli si parò davanti a proteggere l’amico. A ogni suo tentativo, le bestie si schiacciavano una sull’altra e contro le pareti, si gettavano a terra, rotolavano, si scambiavano di posto e, senza stare ferme un istante, trovavano sempre una strada per sfuggire alla corda. Mentre sentiva il battito accelerare, Samuele si accorse che Edo lo chiamava dall’orlo dell’inferriata.
«Spingilo qui!» gli gridava. «Spingilo qui che te lo blocco.» Samuele si avventò verso l’angolo dove si era rifugiato Noce, che subito fuggì contro le sbarre dove Edo lo trattenne appena il tempo di imbrigliargli la mandibola. Un istante dopo, Noce scivolò via strappando la corda sempre più furente, scalciando e sobbalzando come un puledro. I grugniti si trasformarono nel latrato di un cane dell’inferno, un urlo straziante e minaccioso come un trattore ingolfato sul punto di esplodere.
La cattura del maiale nel minuscolo porcile stava degenerando in una lotta corpo a corpo che si poteva anche perdere. Fin da bambino, Samu aveva sofferto di crisi asmatiche, e il fiato corto ne preannunciava l’arrivo. Sentì un conato di vomito gonfiarsi nelle viscere, uno stivale gli scivolò sullo spesso strato di merda e finì in ginocchio.
«Fallo calmare. Tieni la corda e allontanati. Lascia che si abitui al cappio.» La voce di Edo arrivava da lontano, ovattata e distorta, ma gli diede il tempo di rimettersi in piedi e riprendersi.
Respira nella pancia, poi nel petto, poi nella testa. A occhi chiusi, Samuele sentiva riecheggiare nella testa le parole del signor Takaji. Aveva quindici anni. Suo padre lo aveva iscritto ad Aikido perché era l’unica arte marziale disponibile nel circondario: così avrebbe smesso di prenderle e di farsi prendere in giro dai ragazzi del quartiere, e così, forse, sarebbe diventato un uomo.
Suo padre, che non aveva la minima idea di cosa fosse l’Aikido, era il primo a sfotterlo ogni volta che lo portava al campo, perché teneva la zappa come una figa molle, diceva, come una checca.
Manco un cespo di insalata sai ammazzare. Guardati, hai già gli occhi lucidi. Mi sa che tu mi vieni su una checca. Dimmelo subito se sei checca che non perdo tempo a insegnarti il lavoro, ti compro un paio di orecchini e ti porto sulla provinciale…
«Adesso che s’è calmato prendi la corda vicino al collo e tiralo un passo per volta, che quando arrivi qui lo spostiamo insieme di peso», disse Edo.
Ancora un lento, lungo respiro fissando la nuvola di condensa che gli usciva dalla bocca, finché Samu riuscì a inghiottire il rigurgito acido che gli era salito in gola.
Allora sentì tornare la forza, la forza con cui spaccava un tronco di castagno con due colpi d’ascia, e seppe che la gara era finita.
Appena Noce fu fuori dal recinto, Edo prese la corda e mise la pisto la in mano a Samuele.
«Aspettiamo qualche minuto che si calma. Va’ a farti un giro de’, che sei tutto sudato.»
Ma Samuele rimase immobile a respirare, a occhi chiusi.
Non voleva incontrare lo sguardo degli altri, di Eva e degli invitati che ora gli sembravano estranei, il pubblico di un circo della crudeltà.
Poi, come dal cielo:
«Vai, Samuele. Vai che è tutto tuo!»
Il colpo non era uno sparo, non era nemmeno un colpo. Era lo scatto inglorioso del cambio di una bicicletta. Ma non appena Samuele premette la leva nera del grilletto verso il corpo della pistola, un fischio lacerante gli si ficcò al centro della testa, trapassandolo da un orecchio all’altro.
Mentre il corpo di Noce ricadeva su un fianco, restando immobile per un istante e poi iniziando a contorcersi in spasmi violenti, quella iiii acuminata e implacabile risvegliò il rigurgito sedato assieme all’urgenza di svuotare le viscere. Le immagini si accavallarono in un caleidoscopio appannato e Samu si sentì crollare all’indietro.
«Oh, che c’è?»
Le voci riecheggiavano confuse dal buio roteante.
«Dai, dai che finisco io. Dai che sei stato bravo. Dai, ’un è nulla!»
«Papà, papà, cosa c’è? Papà, stai male?»
Il piccolo corpo caldo di Tea lo riportò ai sensi. Le sue braccia intorno al collo lo ripescarono un istante prima di affondare nel vortice.
«No, tesoro. Sto bene. Mi girava un po’ solo la testa. Tutto qua.»
Noce, un fiotto che gli sgorgava dalla gola come un secchio di vernice rossa rovesciato a terra, continuava a contorcersi nel fango e nel suo stesso sangue.
«Tranquilli», rassicurava Edo. «’Un sente niente. Sono solo riflessi muscolari. Prepara la catena, dài, Silvano, che appena si ferma lo tiriamo su.»
Ma nessuno riusciva a muoversi, finché Cassandra, un’amica di Eva insegnante di danze africane, spezzò il silenzio come una nave rompighiaccio con un Ololololo di potenza sovrumana. Tutte le donne si unirono al grido ed era come la fine dell’inverno, la fine della paura, del male, della tristezza e della fame. Il corpo inerte che venne issato sul trespolo per la macellazione non aveva più un nome.
Suonarono tamburi. Tutti cominciarono a ballare, eccetto Giorgio e Silvano, che correvano dal bidone alla carcassa con secchi d’acqua fumante, e Samuele che indugiava a terra ancora mezzo stordito.
Alle mani di Tea si aggiunsero quelle di Lara e Jasmine, due bellezze complementari, la bionda e la mora, rispettivamente compagne di Pablo e Jeremy, amici di Eva che Samu conosceva appena. Lo carezzavano, lo baciavano, attirandolo al centro delle danze.
Ma per Samu non era ancora il momento di festeggiare. Barcollando si portò vicino alla bestia penzolante, dove Edo gli mostrò come tracciare l’incisione sagittale sulla carcassa, per liberare le viscere a cascata senza danneggiarle, in modo da non alterare il sapore della carne.
«Ostia che odore. Ma da quant’è che ’un te lavi?» scherzò Edo.
«È la puzza del tuo culo», ribatté secco Samuele.
Al calar della sera, mentre flauti e tamburi animavano la veranda al ritmo di una pizzica, Samuele poté finalmente verificare l’efficacia della mannaia cinese.
Solo, in cucina, davanti al tavolo coperto di tagli di carne disposti in file ordinate, sminuzzava, scotennava, preparava i sacchetti di budello e macinava le cotiche. Lo spaccaossa troncava di netto fibre muscolari, tendini e articolazioni. Non c’era sofferenza. Questo era il suo regno, il luogo in cui si sentiva a suo agio: la trasformazione.
Manipolare quei tessuti organici grezzi, saggiarne consistenza ed elasticità, sperimentare metodi di cottura e conservazione che li rendessero commestibili, era nutrire il ciclo vitale con sostanza vitale. Tutto questo gli dava un senso di completezza e appagamento.
Si aprì la porta ed entrò Eva, che lo raggiunse passando accanto alla finestra da cui filtrava un residuo di tramonto verdastro. Il viso arrossato dalla danza e il maglione slabbrato, sovrapposto alla pesante gonna di lana, le davano un’aria da fantesca contadina. Abbracciò Samu da dietro afferrandogli la testa con una mano e baciandolo sul collo. Poi posò il viso sulla sua spalla guardandolo lavorare.
«Non sarebbe meglio accendere la luce?»
«Sì, ma bisogna avviare il generatore, dai pannelli non arriva più niente. Vai tu? Ora non posso sporcarmi le mani.»
«Certo», disse Eva baciandogli la schiena, senza ancora staccarsi dal suo corpo. «Ora vado. Ma tu come stai?»
«È stato forte. Che dire? Alla fine tutto ok. L’importante è che non si sia rovinato nulla. Ho un po’ sbroccato, ma poi mi sono ripreso.»
«E ora?»
«Boh. Tranquillo. Guarda che meraviglia.» Samu aveva arrotolato uno spesso foglio di lardo e lo aveva legato con dello spago, e ora teneva l’involto sui palmi aperti contemplandolo con un sorriso.
«Il mio guerriero… Sei fantastico. Ti amo tantissimo», disse Eva stingendolo più forte e mordicchiandogli un orecchio. «Ho bevuto un po’», disse. «Stasera ti farò godere come un maiale impazzito.» Poi si staccò da lui tornando verso l’ingresso. «Vado ad avviare il generatore.»
Aprì la porta ma subito si fermò, e si voltò verso l’interno della stanza.
«Samu», disse guardandolo, con una mano aggrappata all’uscio.
«Che c’è?»
«Macchia lo ammazzo io.»