Il brusio dei candidati riverberava nella sala convegni. Rachel si guardò intorno e fece un rapido calcolo. Dovevano esserci almeno duecento persone, un numero impressionante per quel genere di eventi.
Non era la prima volta che si prestava a un test clinico della Neurotech Foundation. Il centro di ricerca, sorto a metà anni Novanta nella periferia nord di Manchester, era un aggregato di cubi bianchi prefabbricati. Sottili strisce di vetro ne attraversavano le facciate, e tutto intorno, fontane zen e aiuole ben rasate davano il benvenuto ai volontari. Pagavano bene.
Rachel non aveva bisogno di quei soldi. La borsa di studio, il lavoro di barista al Revolution e il contratto per la manutenzione del sito web del Dipartimento di Psicologia, coprivano ampiamente le spese del dottorato. Tuttavia, si era ripromessa di fare il primo milione entro i venticinque anni, un obiettivo che richiedeva impegno e valeva qualche rischio.
In tutte le precedenti occasioni, presentandosi alla selezione dei candidati era stata condotta a una modesta sala d’attesa, occupata da una manciata di studenti fuori corso e disoccupati.
Quel giorno era diverso: sul volantino di reclutamento compariva il nome di Gordon Stockwell, l’uomo più influente della città. Proprietario di tre banche, aveva la fama del magnate avventuroso, capace di scommettere su imprese ad alto rischio e farle fruttare miliardi. Era noto nell’ambiente che la Neurotech fosse affiliata alla Stockwell Corporation, ma il legame fra le due attività era pressoché ignoto al grande pubblico. I metodi della fondazione correvano sul filo della legalità, forzando i tempi di sperimentazione a beneficio delle case farmaceutiche che la finanziavano.
Il vecchio doveva tenerci parecchio a quell’esperimento, pensò Rachel, senza il suo patrocinio in pochi avrebbero risposto a una chiamata dai toni così equivoci.
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Compariva in pubblico di rado, e quella folla era stata attratta dall’opportunità di vederlo dal vivo, forse per l’ultima volta. E ora eccolo lì, dietro al banco degli oratori, la testa coperta di macchie e peluria bianca, il completo troppo largo per il corpo minuto. Da che dipendeva, dunque, il carisma che sprigionava, si chiese Rachel. La risposta le arrivò immediata: dalla quantità smisurata di soldi di cui disponeva.
«Quando io e il dottor Mohan Tivari», attaccò Stockwell senza preamboli, indicando l’uomo che gli sedeva accanto, «iniziammo a confrontare le nostre posizioni scientifiche, capimmo subito di essere accomunati da un’intuizione: se la telepatia esiste, dev’essere una facoltà innata, universale, parte dei processi psichici necessari alla sopravvivenza collettiva.»
Il dottor Tivari sorrideva, in compiaciuto assenso alle parole del patrono. Era un quarantenne dalla pelle scura, alto e magro. Indossava un camice bianco e occhiali senza montatura.
«La maggior parte di noi, tuttavia, non è consapevole della connessione profonda che ci lega al resto dell’umanità», continuò Stockwell, «a causa dell’illusione di una coscienza individuale, che si articola attraverso il pensiero in ciò che chiamiamo ‘personalità’. Immaginate di incontrare un estraneo, di cui credete di non sapere nulla. In realtà, ci sono tantissime cose che già conoscete di quella persona…»
«Con quella persona, signor Stockwell…» intervenne Tivari con uno scatto della testa.
«Esatto, con quella persona», riprese Stockwell. «Grazie, dottore. In ogni caso, il problema con questo bagaglio di informazioni, è che giacciono al di sotto della soglia cosciente. Penserete che stia parlando di linguaggio del corpo, messaggi subliminali, archetipi junghiani. Non è così. L’esperimento a cui vi invitiamo a partecipare è stato preceduto da numerose ricerche, e tutte sembrano dimostrare che più ci addentriamo nell’inconscio, più incontriamo un bacino di cognizioni condivise, che non richiedono alcuna mediazione fisica per divenire esperienza comune.»
Rachel gettò un’occhiata al volantino che teneva in mano, appoggiato alle cosce accavallate, chiedendosi quando gli oratori sarebbero arrivati al dunque. Che c’entrava quel preambolo con i riferimenti ammiccanti che spiccavano nella convocazione? Era certa che ognuno dei presenti si stesse facendo la stessa domanda.
Nulla di strano nelle prime righe del testo, mirate a enfatizzare il valore etico della ricerca scientifica e i vantaggi personali che ne potevano derivare. Quando però si procedeva a elencare le caratteristiche del candidato ideale, al punto quattro era chiaramente specificato:
4. Libero/a da legami sentimentali e sessualmente disinibito/a.
Rachel fece un sospiro e si passò una mano sulla nuca. Da quando si era rasata i capelli, era diventato un gesto eccitante, che sapeva di proibito.
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Il drastico taglio era nato da un impulso di rivolta. Era stufa di passare per la bambolina della classe, costantemente paragonata a Julia Roberts da giovane, con cui non poteva negare una marcata somiglianza. Sotto le lame della tosatrice, la matassa di boccoli rossi, lucidi come la seta, che l’avevano accompagnata dall’infanzia rendendola la cocca dei nonni, era divenuta materia inerte. Uno a uno, li aveva visti cadere al tappeto, in pochi minuti, senza provare una briciola di rimorso.
Il giorno dopo, presentandosi a lezione, aveva osservato le mandibole dei compagni cascare sui banchi. Era ancora più bella, ma in modo meno convenzionale. Il viso scarno, regolare, e il dito di mascara intorno agli occhi neri, ora, ricordavano a una modella di Vogue.
Confidava di passare la selezione. Dopotutto era una psicologa, avrebbe saputo riconoscere i tranelli degli esaminatori. Si guardò nuovamente intorno, questa volta non per contare gli altri candidati, ma per studiarne le fattezze e il portamento. Allenata a un’introspezione capillare, seguì la propria mente infilare, in un millesimo di secondo, ognuno di loro in tre categorie distinte: attraente, ripugnante, accettabile. Vedeva le teste muoversi, sapendo che ognuno dei vicini era impegnato nella stessa operazione.
Dopo una pausa enfatica, il tono di Stockwell cambiò, come avesse voltato pagina:
«Ciò che vi starete chiedendo, è come possiamo accedere a questo potenziale latente. Per rispondere alla domanda, passerò la parola al dottor Tivari, responsabile della Divisione Neurofisiologia Molecolare di questo istituto e autore di oltre duecento pubblicazioni scientifiche sull’argomento.»
Il dottore si alzò e prese posto dietro al banco microfonato. Il suo sorriso si era fatto teso, e sotto alla tinta bruna della pelle, liscia come quella di un bambino, affiorava una sfumatura violacea.
«Il metodo per risvegliare le facoltà telepatiche - che noi chiamiamo tecnicamente neural entanglement o risonanza neurale - si può riassumere in un’unico principio: rimuovere, rimuovere, rimuovere.» Aveva la voce acuta, quasi femminea, di molti uomini indiani della sua età. In contrasto all’autorevole flemma di Stockwell, dava l’impressione di qualcuno che ha seguito corsi per parlare in pubblico, senza mai vincere del tutto la propria timidezza. Il suo eloquio, tuttavia, era impeccabile.
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«Dobbiamo capire che se esiste una barriera a separarci da quel livello della psiche comune all’intero genere umano, siamo stati noi stessi a erigerla. Abbiamo iniziato a farlo intorno ai sei mesi d’età, per difenderci dal flusso smisurato di impulsi che bombardavano il nostro fragile sistema nervoso. Col tempo, però, questo argine difensivo ha assunto uno scopo diverso: proteggerci dallo sguardo degli altri, dall’intrusione delle loro menti nei recessi della nostra identità, dove custodiamo emozioni, desideri e ricordi che vogliamo tenere celati.»
Rachel iniziava a intuire dove il discorso andava a parare. Vedeva i vicini riaggiustarsi sulle poltrone, le loro teste compiere rotazioni più ampie, sguardi fugaci posarsi su di lei per qualche istante di troppo, e senza bisogno di alcuna telepatia, sapeva esattamente ciò che pensavano: sei una grandissima fica.
«Fra i candidati presenti in questa sala, soltanto sei verranno selezionati per l’esperimento.» Le corde vocali di Mohan Tivari si erano scaldate, e ora il suo tono era più fermo e convincente. «Tra pochi minuti, verrà distribuito un test a scelta multipla per una prima scrematura. Chi lo supererà, verrà convocato per una sessione di colloqui con i nostri assistenti, e quei quindici, venti volontari rimasti saranno intervistati personalmente da me e dal signor Stockwell per la scelta finale.»
Tivari si interruppe per riprendere fiato. Bevve un sorso d’acqua mentre il silenzio, che aveva regnato per un’ora nell’aula, era di nuovo violato dal chiacchiericcio dei candidati, che commentavano ciò che avevano ascoltato.
Il dottore si schiarì la voce.
«Ancora un attimo di attenzione, per cortesia… A ciò che vi ho appena detto, vorrei aggiungere che la prima e più importante selezione, siete voi a doverla compiere. Ai sei coraggiosi volontari che emergeranno da questa platea, spetta un compito non facile: quello di entrare, reciprocamente, a un livello di intimità che non hanno mai sperimentato prima, e nemmeno immaginavano possibile. Dovranno permettere ai loro compagni di accedere anche al più ineffabile moto delle proprie coscienze, senza nascondere nulla, senza filtrare nulla, mostrandosi nudi nel corpo e nell’anima. Vi sentite pronti ad affrontare questo processo? Vi invito a chiedervelo sinceramente. E se la risposta è no, potete lasciare questa sala in qualunque momento.»
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Dopo una settimana, Rachel ricevette un’email dalla Neurotech Foundation, che la informava di aver passato il test scritto e la invitava a presentarsi ai colloqui. Si sentì al tempo stesso orgogliosa e a disagio. Delle trentadue domante del questionario, ad almeno diciotto aveva risposto con mezze verità, e in quattro casi aveva mentito spudoratamente.
Che male c’era, si disse. Se davvero quei cervelloni avevano sviscerato i segreti della telepatia, era una buona occasione per dimostrarlo. L’incontro era fissato per il sabato pomeriggio, non avrebbe nemmeno saltato una lezione. Gettò uno sguardo alla tabella dei turni al Revolution, dove trovò la conferma di avere il weekend di riposo.
Arrivata alla reception, fu indirizzata a uno stanzino dove un addetto le scattò una foto e le consegnò il suo badge temporaneo. Quindi la diressero verso un ambulatorio privato, dove l’attendeva una donna dai capelli castani, che le accennò un sorriso invitandola a sedersi di fronte a lei, cercò il suo test dalla pila sulla scrivania, e lo inserì in una cartellina arancione dandogli una rapida scorsa.
«Prima di cominciare, devo informarla che sono un’assistente ricercatrice, vincolata al segreto professionale», le disse fissandola con serietà. «Per garantire la riservatezza dei suoi dati, le è stato assegnato il codice identificativo casuale BET6. Nel caso in cui superi la selezione, questo codice l’accompagnerà per l’intera durata della sperimentazione. Tutto chiaro?»
Rachel annuì.
«Bene. In ogni caso, non si senta obbligata a rispondere ad alcuna domanda. Se è indecisa o non se la sente di trattare l’argomento, può tranquillamente dire ‘passo’.»
«D’accordo.»
Le prime domande vertevano sulla sua salute generale, aritmie, allergie, studi, interessi, legami familiari. Poi Rachel avvertì un cambio di tono.
«Beve alcolici?» chiese l’intervistatrice.
«Occasionalmente, con amici.»
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«Fa, o ha mai fatto uso di stupefacenti?»
«Un po’ d’erba ogni tanto, sempre con amici.»
Occorreva sempre specificare ‘con amici’, in quei casi. Il consumo solitario era sinonimo di dipendenza e abbrutimento.
«Nient’altro?»
Rachel tentennò, ma ritenne sconveniente mentire. Era chiaro che la dottoressa l’aveva inquadrata.
«Mi piacciono i grandi concerti. Glastombury, Reading… In quelle occasioni, mi è capitato di assumere droghe sintetiche, ecstasy, MDMA…»
«Altro?»
«Una volta ho provato della ketamina, ma è stata una brutta esperienza.»
La dottoressa annotò qualcosa su un foglio, in fondo al fascicolo stretto dal mollettone. Mentre rispondeva, Rachel studiava l’interlocutrice. Attraente, sui quarantacinque, sposata, a giudicare dalla fede al dito. L’ufficio non era il suo. Non c’erano foto, oggetti personali, sulle pareti stampe di pittori astrattisti e scaffali di faldoni multicolori, probabilmente vuoti. La stanza era neutra quanto l’espressione della donna, una maestra della faccia da poker.
«Alla domanda 25 del test, ha risposto di non avere un partner fisso da circa un’anno. È corretto?»
«Si», rispose Rachel decisa.
«Per quale motivo?»
Ci siamo, pensò Rachel. Un partner ce l’aveva eccome. Durava da più di due anni, e da sei mesi Ali si era trasferito nel suo appartamento.
«Non c’è un vero motivo. Ho una vita molto piena. Sono concentrata sui miei studi, ho tre lavori, tanti amici. Al momento, preferisco frequentare gente senza vincoli impegnativi.»
«Quindi è sessualmente attiva, con partner occasionali?»
«Direi di si.»
«Con che frequenza, all’incirca?»
Le domande si fecero via via più personali. La dottoressa le chiese della sua prima volta, se avesse avuto esperienze omosessuali, se facesse uso di pornografia, e Rachel dovette destreggiarsi per mascherare il suo disagio ed evitare di contraddirsi.
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Seguì un’altra serie di quesiti su argomenti che sembravano scelti a caso: se coltivava piante o possedeva animali domestici, chi era il suo eroe dei cartoni da bambina. In ultimo, fu sottoposta a un estenuante test di Rorschach, che affrontava per la terza volta in due anni.
Dopo quattro ore di colloquio senza pause, la dottoressa giunse finalmente a un tema di suo interesse:
«Molto bene, BET6, abbiamo quasi finito. Grazie per averci dedicato il suo tempo, capisco bene l’impegno che ha comportato.» Per la prima volta, la donna rise in maniera più distesa. «Entro un mese le verrà comunicato l’esito dell’intervista. In ogni caso, è bene che conosca da subito le condizioni in cui si svolgerà la ricerca, nel caso in cui superi la selezione finale: sarà impegnata un weekend al mese per sei mesi.»
«Ossia da dicembre fino all’estate?»
«Esatto, BET6. Il sabato sera dormirà qui al laboratorio. Il compenso per ogni weekend è di duemila sterline, che le verranno corrisposte mensilmente sul suo conto bancario, per un totale di dodicimila. A questa somma, si aggiungerà un bonus di ottomila sterline per il completamento del test.»
BET6… Seduta in ultima fila, al piano elevato del double decker che la riportava a casa, Rachel ripercorreva l’ultima parte della conversazione. Perché l’aveva chiamata così? Avvertiva un intento manipolatorio, nell’uso di quel codice al posto del suo nome, che ovviamente la dottoressa conosceva.
Si sentiva malinconica e spossata. Il grigiore della periferia a novembre inoltrato non favoriva il morale. L’autobus attraversava un quartiere di edilizia popolare, casermoni fatiscenti dai dieci ai quindici piani. I passeggeri che salivano e scendevano si portavano addosso la miseria delle strade. Coppie di ventenni con quattro figli al seguito, vestiti in tute di rayon comprate al discount. Operai sfiancati dai doppi turni in fabbrica. E frotte di mendicanti diretti a Deansgate, pronti ad appostarsi all’ingresso di ogni bar e 7-Eleven sulle vie della mondanità.
Il cellulare vibrò nella borsa.
«Ciao, sei viva?» le chiese Ali. «Ti aspetto per cena o…»
«Hai già preparato? Se vuoi mi fermo a prendere qualcosa.»
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«Già fatto. Ho preso del cheese naan a Rusholme, e ho cucinato pollo al curry per due.»
«Sei un tesoro…» Rachel si commosse, sentendosi al tempo stesso una merda.
Era sempre Ali a preparare la cena, ma non era quello. Lei non ci aveva proprio pensato, fin quando lui non l’aveva chiamata.
Dopo il colloquio del pomeriggio - realizzò Rachel in quel momento - non solo avrebbe dovuto mentire alla Neurotech riguardo ad Ali, ma mentire ad Ali riguardo alla Neurotech. Forse era per questo che si sentiva così abbattuta. Non era da lei. Il suo umore viaggiava di regola a quote vertiginose. Fiducia e motivazione non le mancavano mai.
Riagganciando, fu tentata di mandar tutto all’aria. Scrivere una mail la sera stessa, per avvisare la Fondazione del suo ritiro.
D’altra parte, si disse, se quell’estate voleva andare a Boston per concludere il suo dottorato, ventimila sterline potevano farle molto comodo. All’inizio del semestre, si era aggiudicata una borsa di studio per discutere la tesi presso il prestigioso Dipartimento di Scienze Cognitive del MIT. Il finanziamento copriva interamente le esorbitanti tasse universitarie, ma l’alloggio al Campus e le spese personali sarebbero stati a suo carico.
L’incontro con Stockwell e Tivari fu meno impegnativo del precedente, ma più sgradevole.
Una telecamera montata su un cavalletto la riprendeva da dietro le spalle dei due padroni di casa.
Il magnate non disse una parola. Era fisicamente presente, ma palesemente distante. Leggeva dei documenti, ignorando la conversazione, e per due volte si allontanò per trattare affari al cellulare.
Tivari, al contrario, sembrava fin troppo interessato a lei. Un uomo viscido, pensò, con evidenti difficoltà nell’approccio all’altro sesso. La guardava come se stesse leccando un gelato, e Rachel ebbe i brividi al pensiero di quella pelle lucida, implume che si strusciava su di lei.
Il dottore le parlò della Fondazione, delle proprie ricerche, quasi stesse conversando con una collega. Rachel ebbe l’impressione che la sua ammissione al test fosse già stata decisa.
La confidenza di Mohan Tivari si attenuò solo verso la fine, quando accese uno schermo rivolto verso di lei, su cui apparve una gallery di volti in primo piano.
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«Ora le mostrerò una dopo l’altra queste fotografie. Vorrei che le guardasse con molta attenzione, e che dichiarasse con assoluta onestà se ha mai visto il soggetto in questione.»
«Ok.»
«Devo sottolineare l’importanza del dare risposte accurate. È fondamentale che non ci siano stati contatti fra i partecipanti, non importa quanto stretti. Se anche riconosce la cassiera del supermercato, o qualcuno che abita in fondo alla via, lo deve dire, è tutto chiaro?»
«Chiarissimo.»
«Devo anche informarla che all’avvio della sperimentazione firmerà un accordo di riservatezza, fra le cui clausole c’è il divieto di frequentare gli altri partecipanti al di fuori dell’istituto. Se doveste incontrarvi per strada, vi dovete ignorare. Pena la perdita del compenso e l’obbligo di rimborso delle somme già corrisposte.»
Quando Rachel conobbe gli altri cinque prescelti, in effetti, credette di intuire il criterio base della selezione: abbinare le personalità più disparate possibili.
I ricercatori dovevano aver suddiviso i candidati in sei categorie, già a partire dal test scritto. Ciò spiegava il fatto che il codice di ognuno dei presenti recasse un numero diverso, appunto dall’uno al sei: BET6, donna; MOR2, uomo; VIC3, donna; PAL1, uomo; ZAC4, uomo; RIA5, donna.
Si trovarono riuniti in una stanza di fronte a un monitor da trecentosettanta pollici.
«Benvenuti alla Neurotech Foundation, sono Karin, la vostra guida remota. Vi accompagnerò nell’esperienza a cui state per prendere parte, offrendo un contributo prezioso allo sviluppo della conoscenza umana.» Il volto di una ragazza bionda parlava su sfondo pastello, abbinato a una voce suadente eccessivamente riverberata.
Rachel ebbe il sospetto che non si trattasse nemmeno di una persona reale, ma di un deepfake, una simulazione antropomorfa generata da un algoritmo informatico, quasi indistinguibile dal vero.
«In queste prime due giornate sarete impegnati in un ‘neutro’», continuò la figura. «Prima di sottoporvi al trattamento sviluppato da Neurotech per potenziare la risonanza neurale, occorre cioè registrare il vostro livello di interazione attuale. A breve sarete condotti alle cabine di gioco. A coppie, vi disporrete sui lati opposti della cabina, separati da un vetro polarizzato. Al momento opportuno, il vetro verrà oscurato per consentirvi di effettuare le vostre mosse senza interferenze visive. Il processo di gioco vi verrà illustrato una volta occupate le rispettive postazioni. Buona continuazione alla Neurotech!»
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La serratura scattò con un comando elettrico, e una luce verde si accese sopra lo stipite.
Il gruppo uscì e si ritrovò su un corridoio bianco, che si stendeva incurvandosi, forse formando un cerchio. Nessun altro era presente, ma una scia di lucine verdi proseguiva oltre la porta, indicando il percorso da seguire attraverso i laboratori.
Tutti indossavano tute sportive in cotone identiche, immacolate, e ciabatte di gomma. La vestizione era avvenuta al loro arrivo, in spogliatoi separati dove ognuno aveva riposto i propri indumenti in un armadietto, per poi passare un’ora seduto a uno scrittoio a firmare liberatorie.
Le luci verdi li condussero a una stanza molto ampia, con al centro un box modulare suddiviso in sei cabine, che si fronteggiavano due a due. Sulla porta di ogni cabina era fissato un piccolo display che riportava i loro nomi in codice.
Rachel entrò nella cabina denominata BET6, accomodandosi su una morbida poltroncina di tessuto.
Poteva vedere dall’altra parte. Di fronte a lei stava MOR2, un uomo di mezza età, stempiato, dall’aria composta. Aveva una barba di tre giorni e le mani spesse di un muratore, o un meccanico.
Si sorrisero e constatarono che potevano anche sentirsi.
«Pare che l’audio sia attivo», disse MOR2 picchiettando un dito sul microfono, che sporgeva dal banco accanto a un touchscreen integrato.
«Anche il mio», confermò Rachel.
Lo schermo si illuminò e ricomparve la ragazza della presentazione.
«Benvenuti alle cabine di gioco. Un ambiente di monitoraggio avanzato che ci permetterà di misurare i vostri progressi.»
Rachel si rilassò sulla poltrona osservando ogni dettaglio dello stanzino. Le pareti erano di un grigio vellutato. Una telecamera nell’angolo a sinistra del soffitto era puntata su di lei. Di certo una identica era apposta nell’altra cabina.
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«Quando vedrete il vetro oscurarsi, la sessione di gioco avrà inizio. Ogni sessione ha una durata di quarantacinque minuti, intervallati da una pausa di quindici. Durante la pausa, potrete ordinare qualunque cosa desideriate dal bar e conversare col vostro compagno di turno. Non vi è consentito trattare argomenti riguardanti la vostra vita privata o il vostro passato. Potete discorrere di attualità, arte, cucina, filosofia, liberamente o utilizzando il suggeritore che comparirà sullo schermo.»
Il gioco era una variante dell’esercizio con le carte Zaner. Essendo il sedici dicembre, gli ideatori del software si erano però sbizzarriti a sostituire i classici simboli stella, onde, cerchio, croce e quadrato, con disegni in tema natalizio: fiocco di neve, alberello, Babbo Natale, calza, renna.
Lo schermo mostrava una griglia di cinque colonne, ognuna composta da cinque simboli uguali, a formare un totale di venticinque caselle. La prima mossa consisteva nel selezionare una delle icone sulla griglia. Il compagno di gioco era avvisato, da una lucina verde sopra al monitor, che era il suo turno di indovinare. Doveva a sua volta selezionare un’icona: se azzeccava il simbolo scelto dall’altro, ma sbagliava la posizione nella colonna, vinceva comunque la pedina, che scompariva lasciando uno spazio vuoto. Se indovinava simbolo e posizione, vinceva l’intera colonna, che veniva sostituita con un’altra intatta.
Sotto alla griglia, era visibile un contatore che riportava il numero e la tipologia di pedine conquistate.
All’oscurarsi del vetro, fu silenziato anche il microfono. Le cabine erano così ben insonorizzate che Rachel provò un senso di claustrofobia, e fu con grande sollievo che al temine della sessione vide la barriera sbiadire e sentì di nuovo la voce di MOR2.
«Hai capito come si fa a ordinare?» le chiese.
«Karin ha detto che si può fare dal display.» Il quadro di gioco era stato rimpiazzato da due pulsanti: Conversation Prompt e BAR. «Oppure parlando direttamente al microfono.»
«Karin, vorrei un caffè», disse MOR avvicinandosi divertito al microfono.
«Certo, MOR2. Come lo vuoi? Espresso, filtrato, americano, con o senza latte…»
«Oh, il Grande Fratello ci ascolta», fece Rachel.
«Doppio americano nero, senza zucchero», confermò MOR. «…Grazie Karin», aggiunse dopo qualche esitazione.
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«Ah, e io vorrei una spremuta d’arancia, se possibile», si accodò Rachel complice.
«Certo», confermò Karin.
Le ordinazioni arrivarono in un paio di minuti, dietro a uno sportello incassato nel banco sotto al display. La spremuta d’arancia era deliziosa, gelata, senza residui di polpa, freschissima.
«Vuoi fare un po’ di conversazione guidata?» propose MOR.
«Al momento no. Ti va di parlare di com’è stata la sessione di gioco?»
«Divertente, a parte il silenzio. Sentivo mancare il fiato.»
«Insopportabile!» risero insieme.
«Che dici, ti sembrava di indovinare le mie mosse?»
«Mh», fece Rachel perplessa. «Con l’andare del gioco era come se acquistasse di senso, quasi riuscissi a intuire i tuoi schemi di pensiero. Ma credo si tratti solo di una questione statistica.»
Allo scadere dei 15 minuti, Karin riapparve sullo schermo, invitando tutti a spostarsi nella cabina a sinistra, scorrendo in senso orario.
Rachel si trovò di fronte a VIC3 - Taglio scadente e tette sgonfie: insegnante delle medie, ultracinquantenne, rassegnata allo sfacelo fisico, single, utente accanita di Tinder.
PAL1 era poco più giovane di Rachel, un biondino dagli zigomi alti e gli occhi sognanti. Forse matricola di architettura, o archeologia.
ZAC4, trentenne, capelli neri e occhi verdi, avventuriero, trasudava testosterone.
RIA5, infine, poteva essere sua coetanea. Una ragazza carina ma smorta, senza muscolatura, la voce cantilenata di chi frequenta associazioni religiose.
Al termine dei giochi furono guidati a camere separate, simili a stanze d’ospedale. Il lavandino disponeva di spazzolino e detergenti monouso. C’era un televisore che trasmetteva i programmi TV in chiaro. La cena, di nuovo, fu consegnata attraverso un sistema portavivande, materializzandosi dietro a uno sportello incassato nel muro. Doveva esserci un complesso sistema di condotti ed elevatori pneumatici, attraverso i piani e dietro le pareti dell’edificio.
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La domenica mattina, dopo la colazione, Rachel incrociò i compagni sul corridoio, ma furono subito smistati a postazioni individuali.
Si ritrovò in una stanza divisa in due da una paratia in plexiglass. Dall’altra parte stava uno strano scatolone, con un portello alla base e una leva vicino al bordo superiore, a circa un metro d’altezza.
Da un pertugio nel muro entrò un grosso gatto rossastro, che subito si mise ad annusare l’ambiente avvicinandosi sempre più alla scatola. Il portello era una griglia metallica, dietro a cui stava una ciotola colma di spezzatino. ‘OPEN’, indicava una scritta accanto alla leva.
«BET6», la voce di Karin si palesò da un altoparlante a soffitto. «L’esercizio di oggi consiste nel concentrarsi sull’animale che hai davanti a te, aiutandolo a superare l’ostacolo che lo separa dal cibo. Buona continuazione.»
Rachel si sedette sulla poltrona e iniziò a fissare il gattone, che miagolava, sempre più irritato, evidentemente a digiuno dalla notte.
Le ore passavano e il gatto alternava inutili tentativi di strappare la grata con gli artigli, a momenti di indolenza in cui si accucciava in un angolo, sonnecchiando. Rachel provò a visualizzare la zampa del gatto che tirava la leva, provò a vocalizzare mentalmente l’istruzione, ma l’animale si ostinava a ignorare la sporgenza nella scatola, quasi non la vedesse nemmeno.
Il pranzo fu servito tramite il solito condotto, e verso le quattro del pomeriggio Rachel iniziò a sentirsi esausta. Aveva sonno, le gambe intorpidite e non accadeva nulla. Si alzò per passeggiare nella sua metà della stanza, e mentre si stiracchiava pensando ad altro, vide il gatto compiere piccoli balzi, interessandosi all’esistenza della maniglia. Dopo cinque o sei tentativi, riuscì ad aggrapparsi al pomello e trascinarlo verso il basso, bloccando il portello in posizione di apertura.
«Complimenti, BET6. Il tuo esercizio di oggi è finito», annunciò Karin mentre il micio si gustava il suo premio. «Puoi tornare a cambiarti e lasciare l’istituto. Ci rivediamo fra un mese. Grazie per aver dedicato il tuo tempo alla Neurotech Foundation.»
Si affrettò alla fermata dell’autobus e arrivò al Revolution appena in tempo per iniziare il suo turno di lavoro.
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Il Revolution non era un semplice bar, era un vodka lounge nello stile della vecchia Unione Sovietica. Insegne rosse con stelle, falci e martelli campeggiavano sopra alle vetrate. All’interno, poster modernisti a tutta parete inquadravano busti di operai muscolosi e fiere contadine rivolti verso un orizzonte bucolico, immersi nella luce arancione dell’alba del domani.
Il locale proponeva oltre quaranta marche di vodka, miscelate in ogni variante possibile. A dispetto dei richiami proletari, i prezzi delle bevande erano oltraggiosi.
Più che un lavoro, per Rachel era divertimento retribuito. I baristi erano le star del locale, idolatrati dalla chiassosa clientela di giornalisti, attori televisivi, intellettuali e modelle.
Quella sera, però, avrebbe pagato per tornarsene a casa. Era stato un errore accettare il turno. Duemila sterline in un weekend potevano bastare. Al richiamo del capo barman, era previsto che il personale si esibisse ancheggiando e lanciandosi bottiglie da un capo all’altro del bancone. Il numero terminava con uno shot collettivo che tutti dovevano tracannare alla goccia.
Al terzo giro Rachel sentì cedere le ginocchia, le ronzavano le orecchie e le etichette dei liquori sbiadivano nelle luci al neon degli scaffali. Si sentì chiamare alle spalle: «BET! BET! Non ci credo, lavori qui!»
Si voltò allarmata e si avvicinò allo sconosciuto, faticando a metterlo a fuoco, e mentre stava per informarlo del probabile equivoco, fu superata da una collega, Elizabeth Bolton, che corse ad abbracciare l’amico.
Il lunedì, come tutte le mattine, Rachel si svegliò alle dieci e si fece un ditalino. Poi scese in ciabatte e vestaglia al diner sotto casa per una colazione abbondante, mentre sfogliava i quotidiani e rispondeva alle mail. Non pranzava mai. A mezzogiorno faceva una doccia e andava al Dipartimento, dove alle due cominciavano le lezioni che coprivano l’intero arco pomeridiano.
Ali, al contrario, si svegliava alle sei e mezza, per essere alle otto in punto alla libreria Waterstone’s su Deansgate, dove faceva il commesso part-time. Stava per concludere un Master in Scienze Ambientali, un indirizzo di laurea che, a giudizio di Rachel, lo avrebbe condannato a una vita di miseria. Ammirava le convinzioni etiche che lo avevano spinto a scegliere quel corso di studi - il suo animo idealista era ciò che l’aveva conquistata - ma era convinta che anche quelle si sarebbero sgretolate di fronte al mondo del capitale. Sarebbe finito a fare il consulente per qualche colosso dell’industria petrolifera, pagato per ripulire l’immagine della compagnia adottando lampadine a basso consumo negli uffici amministrativi.
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Per le vacanze di Natale, Rachel tornò a casa dei suoi, nella campagna del Sussex, dove passò il Capodanno a letto con l’influenza.
Rientrata a Manchester dopo l’Epifania, ebbe il tempo di frequentare una settimana di studi, osservando la sua soglia di attenzione ridursi ogni giorno di più, mano a mano che si avvicinava il weekend centrale del mese.
Ritrovarsi coi sei compagni di sperimentazione nella sala del maxischermo le dette la sensazione di incontrare degli amici fidati. In tutto quel tempo, si accorse, erano le uniche persone che aveva davvero desiderato vedere. Nella stanza si percepiva un senso di fervente aspettativa e, quando il monitor si accese, tutti si zittirono d’un colpo.
«Bentornati alla Neurotech», li salutò Karin sorridente. «Spero che abbiate trascorso un mese sereno e delle piacevoli vacanze coi vostri cari. Questa mattina avrà luogo la prima sessione nella Scatola Nera, il trattamento ideato dalla Neurotech per potenziare la risonanza neurale. Prima di trasferirvi al laboratorio centrale, lasciate che vi illustri le caratteristiche di questo strumento rivoluzionario.»
Mentre la voce di Karin proseguiva il commento fuori campo, l’immagine del suo viso sfumò nell’inquadratura di una stanza bianca del tutto simile a quella che alloggiava le cabine di gioco. Al posto del box modulare, però, al centro dell’ambiente si ergeva un cubo d’acciaio brunito di tre o quattro metri d’altezza. I soffitti erano percorsi da argani e carrucole che ricordavano un magazzino industriale.
«La Scatola», diceva Karin mentre la telecamera ruotava intorno al cubo, «è la versione più aggiornata della vasca di deprivazione sensoriale realizzata dal Dr. John Lilly nel 1954, di cui forse avrete sentito parlare. Il prototipo originario conteneva una soluzione salina riscaldata, pensata per mantenere il corpo in uno stato di perfetto galleggiamento e isotermia.»
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Azionato da due motori elettrici, il coperchio della Scatola si aprì, rivelando un liquido traslucido dall’aspetto vischioso.
«A differenza delle vasche tradizionali però, ideate per una sola persona, la Scatola Nera è progettata per alloggiare fino a sei soggetti in immersione. Inoltre, il corpo non galleggia come nella vasca di Lilly, è interamente sommerso dal fluido. Vi starete chiedendo come avvenga la respirazione. Il liquido contenuto nella Scatola non è acqua, bensì una speciale miscela di perfluorocarburi brevettata da Neurotech, che vi consentirà un’agevole e salutare ventilazione liquida.»
Nella stanza si levò un mormorio sommesso, mentre i sei soggetti si scambiavano sguardi d’apprensione.
«Karin, quanto tempo resteremo nella Scatola?» interruppe MOR.
«Grazie per la domanda, MOR2. Il tempo andrà progressivamente aumentando ad ogni sessione. Oggi cominceremo con due ore, ma non dovete preoccuparvi. Come hanno sperimentato le migliaia di persone che prima di voi sono state in deprivazione sensoriale, dopo pochi minuti la percezione del tempo si annulla, lasciando il posto a un campo di esperienze che non vi posso anticipare. Ciò che posso assicurarvi è che il trattamento non è in alcun modo doloroso, né tantomeno noioso. Entrerete nella vasca in posizione verticale», Karin riprese l’esposizione programmata, mentre un’animazione mostrava sei corpi nudi che si avvicinavano in fila alla Scatola. «Uno per volta, salirete fino al bordo della vasca servendovi della scaletta laterale, poi vi immergerete gradualmente tramite quella interna.»
Per prima cosa ci fu un rumore gracchiante, come una radio mal sintonizzata. Poi due parole, nitide e calde, sussurrate all’orecchio: a m o r e m i o…
L’aspirazione del fluido ossigenato aveva provocato un istante cieco, da cui quei suoni e le parole fruscianti l’avevano strappata, riaprendole i sensi su qualcosa che non aveva nome e confini. Un buio luminoso, pensò Rachel.
Poteva sentire i corpi dei cinque compagni, percepirne i contorni come li vedesse e, in quell’assenza di peso, avvertire la flebile gravità esercitata dalle loro masse. Millimetro dopo millimetro, venivano attratti verso il centro della vasca, in un abbraccio morbido ma indissolubile.
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A tratti, Rachel si trovava a ragionare su quanto stava accadendo, ritrovando una certa distanza, una separazione. Poi veniva di nuovo inghiottita, quasi la sua pelle e la carne si compenetrassero con quelle degli altri, fondendosi in un unico organismo. I loro corpi fisici svanivano, ridotti a fusi luminescenti che si strusciavano l’uno sull’altro, l’uno dentro l’altro, in una vibrazione orgasmica che cresceva senza mai raggiungere la vetta, come non esistesse alcun limite.
Rachel capì, durante una breve fase di stallo, il senso dei requisiti specificati nella convocazione: qualunque amplesso carnale, da quel momento in poi, sarebbe apparso loro un’esperienza alquanto prosaica.
Il processo di fusione proseguì, e sullo sfondo dell’estasi comparvero immagini e suoni, frammenti di conversazioni e ragionamenti, sogni. Non era chiaro a chi appartenessero, a quando risalissero, erano spire di un vortice da cui scaturiva un rombo cupo, sempre più tonante via via che Rachel scivolava verso il centro. Il frastuono divenne intollerabile e Rachel vide il volto di MOR2 appiccicato al suo, e nei suoi occhi vide sé stessa su una barella, con indosso un grembiule verde che le lasciava la schiena e il sedere scoperti. «Respiri in questa maschera, tra pochi secondi non sentirà più nulla…» diceva l’infermiera.
In quel momento si aprì il coperchio della vasca. La luce dei neon tornò a ferire i loro occhi. Un argano meccanico le cinse la vita e la strappò di peso dal fluido, depositandola su un tappetino di gomma, sdraiata su un fianco. Un altoparlante diffondeva una sonata di Mozart, che le apparve banale, infantile. Mentre sputava e rimetteva conati di gel trasparente, riattivando la ventilazione aerea, si ritrovò a singhiozzare in un pianto disperato.
MOR2 le si avvicinò e la tirò a sé, sostenendola.
«Perché non gliel’hai detto? Devi dirglielo, BET! Appena torni a casa. Non puoi vivere con questo dolore», le disse guardandola con tenerezza paterna, come il suo vero padre, pensò Rachel, non l’aveva guardata da anni.
«MOR2», intervenne la voce di Karin. «Gentilmente, allontanati da BET6. Sulla rastrelliera accanto all’ingresso potete trovare dei nuovi accappatoi. Indossateli e tornate alle vostre stanze, dove sarete raggiunti dal personale medico Neurotech per una diagnosi completa delle vostre condizioni psicofisiche.»
«Stronza», bisbigliò MOR a denti stretti.
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Un medico e un’infermiera le misurarono pressione e temperatura, le somministrarono una soluzione ipertonica e lasciarono due compresse sul comodino, che Rachel inghiottì appena furono usciti, addormentandosi in pochi minuti.
Il giorno seguente fu una ripetizione dei test del primo weekend. Passarono la mattina chiusi nelle cabine, dove Rachel totalizzò punteggi inferiori alla prima volta. Si sentiva bloccata e disconnessa. Il gatto con cui lavorò nel pomeriggio era un soriano striato, forse una femmina, con una macchia nera accanto al naso. Rachel non tentò nemmeno di concentrarsi, fissò un punto vuoto nella stanza finché un campanello la avvisò che il tempo era scaduto.
Ali tornò dopo la mezzanotte, aveva fatto chiusura in libreria. Lo sentì coricarsi in silenzio accanto a lei, credendola addormentata.
«Ali», lo chiamò sollevandosi sui cuscini. Già sentiva riaffiorare le lacrime. «Perdonami, ho fatto una cosa sbagliata. Non so se potrai capire…»
«Calmati, Ray, stai tremando.»
«È successo tanto tempo fa, ci vedevamo da meno di sei mesi. Ancora non sapevo se saremmo stati insieme. Pensavo fosse solo un flirt, capisci?»
«Sei stata con qualcuno?»
«No.» Rachel si strinse il viso nei pugni chiusi. «Non eravamo molto prudenti allora, ricordi? E un giorno ho scoperto di essere incinta…»
«E hai deciso di abortire, senza dirmelo.»
«Sì.»
Ali fissava il soffitto, immobile. Rimasero così, lei rannicchiata e lui disteso a occhi aperti, per gran parte della notte.
Entrando in cucina, il mattino seguente, Rachel fu investita dal freddo umido di gennaio. Il bovindo vittoriano era pieno di spifferi, ma nessuno voleva accollarsi le spese della riparazione, così di notte la porta restava chiusa a isolare il resto della casa.
Ali la raggiunse poco dopo, aveva turno serale anche quel giorno. Prese dal frigorifero l’occorrente per la colazione e fece per sedersi al tavolo senza dire una parola.
«Stai cercando di punirmi? Preferirei una scenata», gli disse.
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«Ti ho mai fatto scenate? Sai già quello che penso. Penso che non abbia senso continuare. Non potrò mai più fidarmi di te.»
«Se te l’avessi detto, avresti voluto tenerlo? Dimmi la verità.»
«Non lo so che avrei voluto! Però avevo il diritto di saperlo, mi pare ovvio.»
«Avevo paura, Ali. Vedevo tutta la nostra vita incasinarsi. Temevo che tu mi avresti convinto a tenerlo, e avremmo dovuto interrompere gli studi per star dietro a biberon e pannolini.»
«Non ti avrei certo costretto a fare la mamma, se non era quello che volevi.»
«Si, ma fra noi sarebbe comunque finita. Non volevo perderti.»
«Non è questo il motivo, Ray. Tu non volevi perdere.»
Ali fece i bagagli nel pomeriggio, ma Rachel non si trovò sola nel suo appartamento. Paul, un dottorando in Economia, subaffittava la seconda stanza da letto. La sera verso le dieci lo sentì rincasare. Era sdraiata sul divano del soggiorno da quattro ore buone, doveva essersi appisolata, si era svegliata col buio ed era rimasta lì a luci spente, a piangere. Quando sentì cigolare il pavimento del corridoio, si alzò e andò a bussargli.
«Hai cenato fuori?»
«No, ero al pub con Ivan Leuter, il professore di logica.»
«Il tedesco? Sembra un tipo originale.»
«È polacco, uno spasso di uomo. Dipinge, lo sapevi? Ha fatto anche una mostra alla C6.»
«Ma dai, che roba fa?»
«Non saprei come chiamarla, è tutto il contrario della logica! Come fa uno a passare così da un’estremo all’altro?»
«L’alcol aiuta.»
«Questo è sicuro, non si trattiene proprio!» Anche Paul doveva esserci andato pesante, aveva le guance infuocate e la voce impastata. «Tu che hai mangiato?»
«Niente, mi sono addormentata sul divano. Ali se n’è andato.»
«Ah.» Paul si bloccò in mezzo alla stanza, non si era ancora tolto il piumino. «Mi dispiace. Che è successo?» chiese infine titubante. Fra loro non c’erano mai state confidenze, nient’altro che rapporti amichevoli dovuti alle circostanze.
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«Paul», disse Rachel sedendosi alla scrivania, mentre lui prendeva posto sul bordo del letto, «dimmi la verità. Che pensi di me?»
«Così a bruciapelo? Sei una buona coinquilina. A volte dimentichi di lavare i piatti, ma la tua stanza non emana odori sgradevoli, e la notte non sento ululati.»
«Lo so che non ci conosciamo. Ma in generale, che impressione ti faccio? Pensi che sia una stronza, una cinica opportunista?»
«Perché dici così? Per la questione dell’affitto?»
«In che senso?»
«Beh, tu qui non paghi l’affitto, giusto? Hai avuto l’esenzione perché quando ti sei laureata non avevi un soldo. Però a me la mia quota la fai pagare. Questo mi è subito sembrato un po’ strano.»
«Avresti pagato anche altrove, non eravamo mica amici. Anzi ti ho fatto una tariffa stracciata.»
«Infatti, infatti! Non ho nulla da obiettare, anche a me conviene. Ma se la vedo dal tuo punto di vista, rispetto alla domanda che mi hai fatto… Inoltre ora tu guadagni bene, ma non hai mai avvisato il Comune per far sospendere i sussidi. Questa sì che è una piccola truffa.»
«Truffa?» Rachel sentì avvampare il viso. Paul aveva bevuto decisamente troppo. «Che esagerazione! Con tutto quello che spende lo stato per mantenere gente che non fa un cazzo dalla mattina alla sera. Io mi ammazzo di lavoro per farmi strada, non si può stare sempre alle regole. Hai presente che mondo è questo? Un mondo di lupi! Se hai un minimo vantaggio e non ne approfitti, qualcuno è subito pronto ad approfittare di te.»
Rachel andò in cucina e si versò un bicchiere di vodka. Lo vuotò in un sorso e se ne servì un altro. Poi scese in strada nell’aria gelata, sentendosi calda dentro. Attraversò a passo sostenuto Hulme Park verso il Gay Village, per approdare verso le undici al Try Thai, un bistrò aperto fino a tarda notte.
Mentre mangiava con appetito, notò due ragazze a un tavolo accanto che la occhieggiavano. Terminata la cena, una delle due si alzò per invitarla a brindare al loro tavolo, era il suo compleanno, disse. Rachel si lasciò docilmente abbordare e passò la notte a casa loro.
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Il sabato sera, a una festa conobbe Miguel, un colombiano di colore, suonatore di didgeridoo. Un’amica le bisbigliò, ridacchiando, che il ragazzo era noto per i suoi attributi, e si diceva avesse un anello d’oro conficcato nel glande. Decise di verificare di persona.
Il mese passò fra ebbrezze alcoliche e stati di torpore. Sullo sfondo, persisteva il ricordo di quel momento di assoluto abbandono nella Scatola. A ogni istante, una parte di lei agognava di tornare a immergersi, lasciar svanire i confini dell’io.
Non appena si ritrovò con i cinque compagni, avvertì una scarica attraversarle il retro dell’encefalo, come una piccola sfera vibrante. Le si rizzarono i capelli. Senza dire una parola, tutti si strinsero le mani.
L’immersione del sabato mattina durò tre ore e mezza, e fu con un certo rammarico che Rachel vide il coperchio aprirsi alla fine della sessione. C’era tuttavia l’aspettativa elettrizzante dei test pomeridiani. Qualcosa le diceva che quel giorno i punteggi sarebbero cambiati e sapeva di condividere quel presentimento con gli altri. Difatti, tutte e cinque le partite mostrarono risultati ben oltre la media statistica del 20% di corrispondenze di segno: dal 34% della sessione di gioco con ZAC4, al 41% di quella con VIC3. Non c’era verso che si trattasse di occorrenze casuali, tanto più che giocando con MOR2 - con cui sentiva un’impalpabile connessione speciale - si ritrovò, incredula, a centrare una serie di cinque corrispondenze combinate.
La domenica mattina ci fu un’altra immersione in vasca di tre ore e mezza, e il pomeriggio, nella stanza del controllo mentale, Rachel non vide comparire un gatto dal portello nel muro, bensì un lagotto bianco e ricciuto.
Il cane si trovò di fronte a un macchinario costituito da tre distributori di biscottini, ciascuno con una leva per attivarne l’erogazione. Senz’altro l’animale era stato addestrato in precedenza a quel sistema, perché non appena udiva il segnale sonoro, senza indugio si lanciava verso una delle tre leve, poste a una distanza tale che potesse raggiungerne solo una per volta. Soltanto uno dei distributori, però, era a turno rifornito di biscotti, e il cane non poteva vedere quale, ma Rachel sì.
Non era certa di come avvenisse, una sorta di strascico del campo di risonanza che si attivava nella Scatola. Un’onda elettrica le increspava il cuoio capelluto, e mentre fissava i bocconcini scendere in un vassoio o nell’altro, il quadrupede prendeva ad azzeccare l’erogatore vincente con una frequenza sbalorditiva.
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L’esercizio proseguì per un paio d’ore, con il segnale sonoro che si attivava a intervalli irregolari, talvolta di pochi secondi, oppure con pause di alcuni minuti.
Tornò a casa prima del previsto, e subito si sdraiò sul letto disponendo alcuni cuscini dietro la schiena, altri sotto le braccia formando una grande poltrona, e lì rimase fino a tarda notte, immobile, carica di un languore sensuale che non riusciva a smettere di assaporare.
L’andamento ascendente dei test proseguì nei mesi successivi, parallelamente al tempo di immersione nella vasca. Per il mese di aprile, erano state raggiunte le cinque ore di permanenza nel fluido.
Il rapporto fra i sei sperimentatori non poteva essere più saldo. Era bello stare insieme, una calma felicità, un senso di rassicurazione, che infondeva la convinzione che tutto fosse ok.
La risonanza neurale non si manifestava in modo evidente all’asciutto. Indossate le tute sportive, nessuno di loro era in grado di leggere i pensieri altrui come fossero propri. I fenomeni telepatici ricomparivano però nelle cabine di gioco. All’accendersi della luce verde, Rachel avvicinava il dito allo schermo e sentiva quella biglia pulsare a livello della nuca, appena sotto la superficie del cranio, guidandola verso un punto preciso della scacchiera. E qualcosa di simile accadeva con gli animali che le venivano presentati la domenica pomeriggio, rispettivamente una pecora nel weekend di marzo e cinque piccioni in quello di aprile, al solito posti di fronte a enigmi che occorreva risolvere per ottenere del cibo.
Puntualmente, poi, nel corso della deprivazione sensoriale venivano intercettati pensieri e ricordi riservati, su cui i sei compagni avrebbero molto desiderato confrontarsi una volta finito il trattamento. Per farlo, però, era necessario eludere la sorveglianza di Karin, che sarebbe altrimenti intervenuta interrompendo le confidenze.
Il sabato pomeriggio, sempre ad aprile, Rachel e RIA5 si scambiarono occhiate complici, stabilendo di ritrovarsi nei bagni alla prima occasione propizia.
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«È successo solo quella volta, vero?» chiese RIA, seria e composta come d’abitudine, benché scossa dall’episodio che ora giaceva in lei, vivido come appartenesse alla sua esperienza personale.
«Sì, ero giovane, sai, appena maggiorenne. Ero immatura, confusa.»
«Infatti, che ti ha spinto a farlo? Questo non mi è arrivato.»
«Avevo quest’amica al liceo, Lianne. Lei era sempre stata, come dire, più grande della sua età. Finito l’ultimo anno, dopo l’iscrizione al College, ero disperata, mi sentivo in colpa per papà. L’attività era fallita, era depresso da anni. Non capivo come facesse a pagare le rette, avevo il terrore che si stesse di nuovo indebitando. Così chiamai Lianne e le chiesi come funzionava. Lei aveva interrotto gli studi e viveva ancora nel Sussex, ma affittava un appartamento nella City, dove lavorava. Mi fece qualche foto e mi aiutò a iscrivermi a un sito. Mi spiegò come approcciarmi al cliente, qualche regola di sicurezza. Poi mi arrivò un messaggio, il resto lo sai.»
«È stata l’esperienza più odiosa che abbia mai vissuto. Quando ti ha chiesto di prenderglielo in bocca, e hai pensato che non avresti mai più fatto sesso in vita tua…»
«Già, e pensa che io, allora, me la immaginavo come una figata, una trasgressione da grandi: un uomo che smania per te al punto da pagare per averti! Ma subito dopo ho capito che non faceva per me. È stato quando mi sono trovata i soldi in mano, credo. Sapevo che non c’era modo di tornare indietro, cancellare quella traccia nella storia, e avrei fatto di tutto per dimenticarmene. Ho provato una rabbia.»
«Credo di aver sentito anche quella.»
«Perdonami, non avrei mai voluto scaricarti addosso…»
«No, no, che c’entra, non ti devi mica giustificare. Sono l’ultima persona a giudicarti.»
In effetti, anche Rachel aveva scoperto tante cose su RIA. Come aveva intuito fin dal principio, era cresciuta in una famiglia religiosa, nella fattispecie metodista. I pilastri della perfezione spirituale, ripeteva suo padre nelle frequenti prediche che precedevano i pasti, erano l’onestà e la modestia. Le due virtù però, aveva presto notato RIA, sembravano studiate per ostacolarsi a vicenda. Come si poteva essere onesti, se il desiderio non era ammissibile che entro confini stabiliti da altri?
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In seconda media, durante un compito in classe, una compagna seduta al banco davanti si era tolta il sottile anello d’argento che portava sempre al dito. L’aula era silenziosa, ogni studente concentrato sulla sua prova. Girando il foglio, senza accorgersene la compagna aveva fatto cadere l’anello, che era rotolato al suolo fino ai piedi di RIA. Sicura di non esser vista, lei l’aveva raccolto e se l’era infilato in tasca. Tornata a casa, l’aveva deposto in un piccolo scrigno dove custodiva le sue gioie di bambina, provando una bramosia euforica al pensiero di indossarlo, in segreto. Un solo istante dopo, l’euforia era mutata in un immenso disgusto per sé e quel sentimento maligno emerso dal suo cuore. Era dunque una persona cattiva, non c’era altra spiegazione.
Corse al fiume Exe, che scorreva accanto al suo villaggio nel Somerset, e da un ponte riversò l’intero contenuto dello scrigno nelle sue acque. Non avvertì però alcuna autentica redenzione a seguito di quel gesto. Neppure dopo la confessione al sacerdote, era mai più riuscita a scrollarsi di dosso l’impronta di quella meschinità. Almeno finché il ricordo non era ricomparso nella Scatola.
Pur non potendo comunicare liberamente in proposito, i sei condividevano la sensazione che per quanto penoso fosse il disvelamento delle fantasie più imbarazzanti, delle proprie bassezze, dei momenti umilianti e degli errori irreparabili, riviverli insieme ne alleggerisse sempre di più il peso, fino a generare momenti di soavità tale da far loro apparire ridicolo l’averne mai provato vergogna.
Un solo appuntamento mancava alla conclusione del test, e mentre i weekend alla Neurotech erano sempre più entusiasmanti, la vita privata di Rachel andava precipitando.
Dopo un paio di tentativi di riallacciare i rapporti con Ali, si era arresa all’idea che la loro relazione non avesse speranze di rifiorire, né aveva voglia di cominciarne un’altra, o andare in cerca di avventure. Ormai da un paio di mesi aveva smesso di provare qualunque stimolo sessuale e la cosa la preoccupava non poco.
Anche l’interesse per lo studio e i rapporti sociali si erano come avvizziti. Al di fuori del laboratorio, perfino le persone più brillanti le apparivano scontate, chiuse in un mondo ristretto di elaborati autoinganni. Ma c’era qualcos’altro che, ancora di più, gravava sulla coscienza di Rachel stringendola in un’angoscia paralizzante. Nelle circostanze più disparate - poteva trovarsi al Dipartimento o in un bar, per la strada o al centro commerciale - le capitava di sperimentare momenti di assenza: uno stato di leggera trance, in cui era cosciente del mondo che la circondava, ma i suoi colori sbiadivano in un’immagine desaturata. Allora si presentava la voce.
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Sempre la stessa voce, quella che aveva udito bisbigliarle all’orecchio all’avvio della prima immersione. Una voce calda e profonda di uomo che dialogava con lei confortandola, quasi cercasse di sedurla.
Rachel era spaccata a metà. Da un lato desiderava che quel sussurro sparisse, e la sua vita tornasse alla normalità, ricominciando a sentirsi attiva e motivata. Dall’altro agognava il prossimo tuffo nella Scatola Nera, al quale attribuiva un potere risolutivo. Ma poteva anche darsi, al contrario, che al concludersi dell’esperimento, cui mancava ormai meno di un mese, la sua esistenza sarebbe stata inghiottita in un gelido vuoto.
Un venerdì dei primi di maggio, mentre beveva un tè nella caffetteria universitaria correggendo gli esami degli studenti del primo anno, sentì del trambusto alle sue spalle. Si voltò, assieme a tutti i presenti, nella direzione delle voci concitate. A una ragazza erano stati rubati il computer e lo zaino, che aveva lasciato incustoditi andando in bagno. La scena si risolse in pochi minuti, quando la studentessa rinvenne gli oggetti scomparsi su un tavolo all’altro capo della sala. Tornando alle proprie faccende, Rachel si accorse che nella pila di compiti da correggere era stato infilato un bigliettino. Impallidì.
«Vi stanno drogando», riportava il messaggio. «Domani, 6 pm, Wharf Marina.»
Accartocciò la striscia di carta e la nascose in tasca, mentre scrutava gli avventori del bar sentendo girare la testa.
Non poteva ignorare l’appuntamento. Fra i tanti avvenimenti sconvolgenti degli ultimi mesi, era come se qualcosa del genere dovesse per forza accadere.
Il Wharf Marina era un moderno quartiere residenziale costruito su un’insenatura del Rochdale Canal, una scelta improbabile per un incontro segreto. Forse il misterioso informatore aveva voluto rassicurarla invitandola in un luogo piuttosto frequentato. Alle sei di sera, però, solo pochi passanti calpestavano le spianate d’erba e cemento lungo gli specchi d’acqua, distrattamente affrettandosi a casa dal lavoro.
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Notò un uomo seduto su una panchina all’ombra di un esile acero campestre. Sembrava guardarla da dietro un quotidiano aperto. Difatti, appena fu certo che l’avesse visto, con un rapido movimento delle pupille la invitò a seguirlo. Si alzò all’istante camminando spedito verso un pontile di legno. Attraversato il canale, si ritrovarono al di fuori del passaggio pedonale, ma l’uomo non si fermò, proseguì imboccando una rampa che li condusse al livello delle acque, dove finalmente si arrestò ad aspettarla al riparo di una passerella sopraelevata.
«Vieni, presto», le disse, vedendola esitare. Poi si aprì la giacca spazientito, come a mostrarle che non portava armi.
Indossava un completo da ufficio e la cravatta, ma aveva un’espressione dolente. Avvicinandosi, Rachel avvertì l’odore di chi non si lava da diversi giorni o forse settimane.
«Non c’è tempo da perdere», le disse l’uomo appena gli fu davanti. «Mi chiamo Marc Stratter, ho lavorato per sette anni come ricercatore alla Neurotech Foudation, puoi controllare su LinkedIn.»
«Lo farò.»
«Quel che ho da dirti non ti piacerà, ma devi credermi. Stai correndo un grosso rischio, tu e gli altri. Dovrai avvisare anche loro.»
«Hai scritto che ci stanno drogando.»
«Ho semplificato. In realtà è molto peggio: vi stanno hackerando. Quel fluido che vi fanno respirare quando vi immergete nella Scatola, contiene dei nanobot che si insinuano nel sistema nervoso centrale. In pratica, sono delle microscopiche ricetrasmittenti che si ancorano ai neuroni, è questo che provoca i fenomeni telepatici.»
«Cosa!»
«Ci sono passato anch’io, ma nel mio caso sapevo benissimo quel che stavo facendo. I primi soggetti per le sperimentazioni sono stati scelti fra il personale della Fondazione, eravamo informati di tutti gli aspetti tecnici. Quello che non conoscevo era il fine di questa tecnologia…» Il tono di Stratter si fece ancora più circospetto, calando il volume della voce nonostante fossero soli. «Esiste un committente segreto: il Ministero della Difesa… Il loro obiettivo non è studiare i vostri poteri telepatici, ma controllare i vostri pensieri. Possono entrarti nel cervello e farti credere o fare qualunque cosa.»
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«Anche adesso lo stanno facendo, con te?»
«No, con me non funziona, perché mi sono fermato prima! I nanobot che ti somministrano nelle prime fasi sono temporanei. Servono ad abituare l’organismo, ma si disgregano in pochi giorni. L’ultimo trattamento è quello decisivo, definitivo. Ma io ho capito ciò che stava accadendo. Sentivo la voce di quella canaglia, il dottor Tivari, dentro la mia testa, a ogni ora del giorno… Ho detto no! Io non ci sto più! E mi sono rifiutato di partecipare all’ultima fase del test. Così sono stato licenziato, ripudiato, e ora mi seguono ovunque vada perché per loro sono un pericolo. Se scoprono che ho parlato con te, ci faranno sparire entrambi.»
Marc Stratter parlava ansimando, con gli occhi sgranati che correvano a destra e a sinistra, senza smettere un istante di guardarsi le spalle e restando a oltre un metro di distanza da Rachel, quasi temesse che anche lei potesse aggredirlo.
«Come hai fatto a trovarmi?»
Il volto di Stratter si rischiarò in un guizzo d’orgoglio: «Sono un ingegnere informatico. Me la cavo bene e conosco alla perfezione i loro sistemi. Quando ho sentito che cercavano altre cavie mi sono messo al lavoro. Hanno cambiato le password ma l’altro ieri le ho decriptate. Vi ho cercato subito. Ho scoperto che frequenti la Metropolitan, anch’io ho studiato lì…»
Si arrestò d’un colpo, tendendo le orecchie, mentre fissava un punto alle spalle di Rachel e il panico gli stravolgeva il viso. Un bambino piangeva nel passeggino spinto dalla madre. Voltandosi, Rachel la vide imboccare la rampa per servirsi del sottopassaggio. Sentì l’aria smuoversi e prima che potesse reagire, Stratter già stava correndo lontano: «L’ultima domenica resta fuori dalla vasca!» le gridò prima di sparire.
Mentre la donna la superava ignara, confortando il neonato, Rachel vide i lampioni accendersi lungo il canale. Era l’imbrunire. Risalì la rampa e si ritrovò sola sulla banchina. Mise le mani nel giubbotto di pelle e inalò l’aria fresca di maggio, esaminando il suo cervello che le sembrò, tutto sommato, in condizioni migliori di quello di Marc Stratter. In poco meno di un’ora avrebbe dovuto iniziare il suo turno al Revolution. In quel momento decise che sarebbe stata la sua ultima serata.
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La domenica mattina scrisse una mail alla Neurotech, in cui richiedeva un colloquio con Mohan Tivari.
Con sua sorpresa, le fu proposto un appuntamento per il mercoledì successivo, a dieci giorni precisi dall’incontro finale.
«Nanobot? Molto divertente.» Tivari l’accolse nel suo studio all’ultimo piano della Neurotech, dondolandosi su un’elegante poltrona girevole. «Non le chiederò di rivelarmi chi le ha raccontato queste sciocchezze. Si tratta senz’altro del dottor Marc Stratter, da anni è la nostra spina nel fianco. Abbiamo dovuto allontanarlo più volte dalla Fondazione con la forza, e quindi emettere una diffida legale a suo carico.»
«Sembrava molto turbato, direi in stato confusionale, ma anche credibile. Mi ha messo in allarme.»
«Qualcosa di vero c’è, in ciò che le ha detto Stratter. Abbiamo fatto dei grossi errori, all’inizio di questo progetto. Il peggiore è stato quello di coinvolgere i nostri ricercatori nell’esperimento, sulla base del fatto che erano entusiasti di farlo; ma l’entusiasmo è un pessimo criterio di reclutamento. È per questo che abbiamo elaborato l’accurato sistema di selezione che lei ha dovuto superare per partecipare ai test. Mi segua, Rachel, lei è a sua volta una psicologa, di certo non è a digiuno di questi temi. La deprivazione sensoriale, come si sa da tempo, induce stati di coscienza alterati, analoghi a quelli prodotti dagli allucinogeni. Lo stesso vale per gli effetti indesiderati. Prendiamo l’LSD: per la maggior parte di noi è innocuo, ma in alcuni soggetti attiva psicosi latenti, disturbi che in realtà pre-esistevano all’assunzione della sostanza. Ha presente quel che è accaduto a Syd Barrett?»
Rachel fece un cenno di assenso, senza interrompere il dottore.
«Marc Stratter è andato fuori di testa, questa è la triste verità. Guarda troppi video complottisti su YouTube. Ci rifletta: le pare che possa esistere oggi la tecnologia di cui le ha parlato?»
«Francamene non lo so. Di questi tempi ho l’impressione che nulla sia del tutto impossibile.»
Mohan Tivari rise di gusto, riducendo la risposta di Rachel a una battuta di spirito.
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«In un certo senso ne sarei felice, ma per ancora parecchio tempo dovremo accontentarci delle doti che ci ha fornito Madre Natura, investigandone le piene potenzialità e chiamandola a esprimerle. Glielo assicuro, Rachel, tutto ciò che avviene nei test è unicamente il risultato della deprivazione sensoriale congiunta, portata all’estremo dalle condizioni speciali che abbiamo allestito per voi. Nel fluido non c’è nulla di più di ciò che vi serve a respirare, galleggiare, e annullare ogni stimolo esterno. Del resto, me lo potrà confermare, la risonanza neurale si mantiene solo per poche ore dopo l’immersione. A meno che lei ora non mi dica di poter leggere nella mente degli altri anche una volta tornata a casa. Questa sarebbe una novità interessante.»
«No, ci ho provato ma non funziona. Però una cosa strana c’è. Sento una voce, proprio come ha detto Stratter. Dice che quella voce è la sua, dottor Tivari, e che cerca di controllare i suoi pensieri come noi facciamo con quegli animali.»
«Certo, si tratta di un noto effetto secondario che svanisce in poche settimane, glielo garantisco. Alcuni sentono la voce del nonno, altri quella di Marilyn Monroe. A lei quella voce sembra uguale alla mia?»
«No, per nulla.»
«Lo vede, io sentivo quella del guru di mia madre, Sai Baba, un personaggio che per altro detestavo…» Tivari si fermò un istante, pensoso, prendendo un lungo tiro da una sigaretta elettronica. «Anche io sono stato nella Scatola, assieme a Stratter. Nello stato di deprivazione, si è innescato una sorta di conflitto fra di noi, la definirei una ‘guerra telepatica’. Percepivo un luogo della sua coscienza dove non voleva in alcun modo lasciarmi entrare, un luogo oscuro, malsano, non i soliti peccatucci che tutti noi ci portiamo dietro. Come le dicevo, quell’uomo è disturbato. Lo scontro deve aver generato in lui la fissazione che io rappresenti una minaccia. Non escludo che possa aver compiuto in passato qualcosa di davvero atroce: un omicidio, ad esempio, o una follia di pari livello. E ha iniziato a temere che io potessi scoprirlo, e denunciarlo. No, Rachel, lei mi deve dare credito in questo. Seguo attentamente i vostri progressi e i risultati degli esami clinici che effettuate dopo le immersioni. Non c’è alcuna anomalia nei suoi valori. Lei è uno dei nostri soggetti più promettenti e spero vivamente che non abbia intenzione di ritirarsi. Allora, ho dissipato a sufficienza i suoi timori?»
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Il 17 di maggio era una giornata soleggiata. Le facciate della Neurotech guardavano a Est, e alle sette e cinquantatré del mattino risplendevano di un bianco accecante. Trattandosi di un sabato mattina, il passaggio era limitato a pochi impiegati che facevano gli straordinari.
Rachel si fermò a metà del vialetto di ghiaia, fissando l’ingresso dubbiosa.
Il suo accesso era previsto per le otto. Lasciò il vialetto e fece qualche passo sul prato fino a una pozza rotonda, circondata da pietre levigate che proseguivano coprendo il fondale. Un tubo di bambù spuntava dalla roccia, riversando con un gorgoglìo un rivolo d’acqua nel laghetto.
Si sedette, lasciando che lo sguardo si posasse sulla superficie smossa, sotto cui nuotavano una dozzina di carpe koi di dimensioni diverse, alcune rosso dorato, altre maculate a squame bianche e nere.
Appoggiò il cellulare accanto a sé per controllare l’orario: aveva cinque minuti per meditare e prendere una decisione finale. La scelta non era fra entrare o meno nella clinica - sapeva bene che l’avrebbe fatto - ma se comunicare agli altri ciò che aveva appreso negli ultimi giorni, e soprattuto come.
Il tempo passò rapidissimo, senza che la sua mente si fosse assestata su un’opzione o sull’altra. Premette un dito sullo schermo del telefono e vide che erano le otto in punto: aveva sessanta secondi per passare il badge senza risultare in ritardo, altrimenti…
Altrimenti? L’avrebbero richiamata, forse. Non sapeva di preciso che sarebbe successo. Probabilmente nulla di grave.
A s p e t t a
Sentì quel sussurro come un soffio di vento, le rimbalzò vivido da un lato all’altro della scatola cranica.
Di chi era la voce? Chi le ricordava? Se l’era chiesto migliaia di volte in quelle ultime settimane. Aveva pensato a suo padre, o un antenato mai conosciuto, amici ed ex-fidanzati. Aveva anche supposto che fosse la sua stessa voce, come riprodotta al rallentatore.
A s p e t t a
Le disse di nuovo. Perché?
Che differenza poteva fare, ormai? Non c’era modo di comunicare con gli altri senza essere scoperti da Karin. Tanto valeva andare fino in fondo. Stava solo perdendo tempo, pensò, quando vide passarle davanti VIC3 che si avviava all’ingresso.
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Non le era mai capitato di incrociare i compagni, entrando e uscendo dalla Fondazione. Gli orari d’arrivo e partenza erano fissati appositamente a venti minuti l’uno dall’altro. Erano le 8:08, VIC3 era arrivata in anticipo.
Si alzò e procedette decisa verso la donna. Una gonna sobria, sotto al ginocchio, il cardigan abbottonato sulla camicetta bianca, era così che le appariva nei suoi ricordi nella vasca, ma vederla dal vivo la colse alla sprovvista: era una persona reale. Avvicinandosi, provò per lei un affetto sincero, il desiderio di abbracciarla e parlarle liberamente. Se negli ultimi mesi la frequentazione del consesso umano l’aveva lasciata indifferente, comprese, era perché tutto il trasporto emotivo confluiva nei cinque compagni di sperimentazione. Passato quel weekend, comunque andassero le cose, le sarebbero rimasti degli amici speciali, unici. Intanto, formulava mentalmente le poche frasi mirate che doveva dirle.
Quando le fu accanto, si mise a procedere alla stessa andatura, tenendosi a un paio di metri di lato, finché VIC3 non si avvide della sua presenza.
«Un uomo mi ha avvicinato, presentandosi come un ex ricercatore della Neurotech», disse guardando avanti. «Questo corrisponde, ho potuto verificare. Dice però che siamo in pericolo, che dovremmo evitare l’ultimo trattamento, quello di domenica mattina. Ti racconto il resto dentro. Incontriamoci nei bagni prima dell’immersione di stamattina. Ora fatti un giro e lasciami entrare per prima, sono già in ritardo.»
VIC3 fece un cenno col capo e imboccò un vialetto secondario.
«Dobbiamo assolutamente farlo sapere agli altri!» disse VIC dopo che Rachel le ebbe riassunto il nocciolo dei suoi due incontri. Dirimpetto alla sala del maxischermo, il bagno condiviso era l’unico angolo dei laboratori dove fosse possibile appartarsi. Uno specchio senza cornice si estendeva sopra a due lavandini gemelli, davanti ad altrettante cabine wc.
«Lo pensi anche tu? Ma come facciamo a riunirci e parlare tutti insieme, in privato, senza che Karin ci divida?»
VIC si mise a riflettere. Avevano solo pochi minuti a disposizione, non c’era tempo per formulare un piano. Alzò su Rachel uno sguardo fiducioso, afferrandole il braccio in una stretta.
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«Forse non è necessario, potresti provare a trasmettere agli altri il ricordo dei tuoi colloqui con Stratter e Tivari mentre siamo nella vasca.»
«Non avrei idea di come fare. Hai presente che succede là dentro? Non c’è controllo di cosa si condivide.»
«Provaci, BET.»
Per quella giornata, annunciò Karin, era prevista un’immersione di sei ore, dalle dieci alle sedici. Avrebbero quindi fatto una pausa per i controlli clinici e poi direttamente alle cabine di gioco, senza pranzare.
Non appena Rachel si sentì risucchiata verso lo stato di fusione, provò a concentrarsi su quella parte della psiche che custodisce la memoria cosciente, sul volto di Stratter e la sua voce, sugli odori, ogni dettaglio dell’ambiente che aveva attirato la sua attenzione. Tutto ciò che ne ottenne fu una cocente frustrazione. Quello sforzo mentale la privava della sublime beatitudine che faceva scivolare via il tempo, rimpiazzata da uno sgradevole formicolio. Nonostante la connessione psichica fosse presente, era accompagnata da un subdolo nemico: la noia. Intrappolata nella gabbia razionale che si era da sé costruita, non faceva che rigirarsi in pensieri a fondo cieco. I ricordi di cui andava in cerca le sfuggivano, sfilacciati, mentre si ripresentava ossessivamente l’ultima parte del colloquio con Tivari.
«La vedo ancora diffidente, Rachel», aveva proseguito il dottore. «Ha letto le mie ricerche?»
«Ho evitato di farlo. Preferivo entrare nell’esperimento senza preconcetti.»
«Molto giusto. Però a questo punto, forse, sarebbe opportuno che si documenti. Le invierò una mail con un elenco di link agli articoli più rilevanti. Potrà convincersi lei stessa di ciò che ora le posso solo accennare. Vede, Rachel, la nostra meravigliosa coscienza, questo incredibile dono, si leva come una fenice dalle ceneri del Big Bang, insinuandosi in ogni angolo del cosmo assieme alla radiazione primaria. Essa emerge direttamente dal livello quantico - per non dire sub-quantico - della realtà, in cui non occorre alcuna prossimità fisica perché due particelle possano condizionarsi. Tutto è Uno, come dicevano gli antichi filosofi.»
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Le era sembrato, in quell’ultimo slancio enfatico della sua apologia, non tanto uno scienziato, o un filosofo, quanto un bambino che racconta invasato le avventure dei suoi supereroi.
Aveva studiato i documenti che Tivari le aveva indicato, trovandoli suggestivi, ma ora quel guazzabuglio di informazioni teoriche invadeva lo spazio buio impedendole di abbandonarsi all’assenza di confini fisici, abbattere le difese, risuonando, fondendosi.
Uscì dalla Scatola anchilosata e confusa.
Ritmo cardiaco, pressione, saturazione del sangue, tuttavia, erano nella norma. Poteva passare assieme agli altri alla sessione di gioco, che sarebbe stata più breve del solito, permettendo loro di ritirarsi e cenare, finalmente, intorno alle otto.
Come il primo giorno, il suo compagno all’apertura dei giochi fu MOR2. Rachel si trascinò attraverso svariati turni di selezione dei simboli sulla scacchiera, facendo le proprie scelte in automatico, senza curarsi dei risultati fino a sprofondare, senza nemmeno accorgersene, in un lieve assopimento.
Si ritrovò così proiettata verso un inedito stato di coscienza. Una sorta di crepuscolo della psiche, una zona morta, in cui la realtà era piegata e ritorta in sé stessa. Come in un diorama - quelle superfici che contengono due immagini distinte, e rivelano l’una o l’altra variando di pochi gradi l’inclinazione del supporto - poteva vedere i contorni della normalità oppure scavalcarli, distinguendo il viso di MOR oltre il vetro oscurato, perfino scorgere ciò che aveva alle spalle e dietro alla porta.
Subito si concentrò sulla scena dell’incontro con Stratter, sapendo che MOR l’avrebbe rivissuta insieme a lei. Il gioco si arrestò mentre il compagno era trascinato sulle rive del Rochdale Canal. Occorsero solo pochi secondi perché MOR fosse messo al corrente delle circostanze nel dettaglio, ripercorrendo le ultime due settimane di Rachel a velocità supersonica, fino al momento in cui si consultava con VIC su come convocare i compagni in una riunione segreta. Senza sforzo, MOR le trasmise l’immagine di sé stesso all’interno della propria stanza alla Neurotech, mentre puntava il dito verso un orologio digitale che segnava le due antimeridiane.
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Con quella visione fissa nella testa, andarono in cerca degli altri compagni nelle cabine adiacenti. Non fu facile intercettarli, essendo loro focalizzati altrove. Ma Rachel fu abbastanza certa di avere diffuso il messaggio, prima di essere richiamata nel suo corpo dalla voce di Karin:
«BET6 e MOR2, perché avete interrotto il gioco?»
«Scusa Karin, sono molto stanca oggi, stavo per addormentarmi.»
«Mi dispiace BET6, pensi di riuscire a concludere la partita? Ti preparo un tè allo zenzero che potrai bere alla prossima pausa.»
«Ok, Karin… Grazie.»
Quella notte, all’ora concordata, tutti erano presenti nell’alloggio di MOR.
«Ho visto questa stanza, prima, nelle cabine», disse PAL1. «Credevo fosse un filmato sul touch screen, all’inizio. Poi ho capito che era nella mia testa e che arrivava da uno di voi, e sono venuto.»
Anche gli altri confermarono la visione.
«Oggi io e BET siamo riusciti a fare una cosa nuova», spiegò MOR.
«Già, penso di aver capito come attivare il campo di risonanza fuori dalla vasca», aggiunse Rachel.
I compagni la guardarono increduli.
«Credi di poterlo rifare?» chiese ZAC4.
«Non lo so, prima eravamo freschi di immersione, è accaduto da sé ma, con il vostro aiuto, forse ce la posso fare. Prendiamoci le mani, mi darà forza…»
I sei si ritrovarono sotto alla passerella, presenti alla scena come se stesse avvenendo in quel preciso momento e tutti fossero lì assieme a Rachel. Stratter parlava, ogni suo gesto registrato, scolpito nella matrice del tempo. Lo stesso accadde con Tivari, nel luminoso ufficio ai piani alti della fondazione.
Come avveniva nella Scatola Nera, l’esperienza di quegli eventi era accompagnata dalla coscienza di ciò che ognuno di loro provava in relazione agli eventi stessi, e ciò che accomunava i sei compagni era, innanzi tutto, un senso di onnipotenza. Essere arrivati così vicini gli uni agli altri da poter compiere un simile prodigio, li trasportava su un piano superiore dell’esistenza umana. Quali cose avrebbero potuto fare, con un tale potere nelle loro mani?
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Non occorse alcuna consultazione, ci fu solo una decisione comune: sarebbero arrivati fino alla fine, entrando insieme nella vasca il mattino seguente. L’avvertimento di Stratter non era credibile, la versione di Tivari era più convincente: aver sviluppato abilità telepatiche era merito loro, del loro talento e della loro fiducia, non di qualche improbabile nanotecnologia. Ogni riflessione sul tema, per altro, era espressa non a parole, ma in qualcosa di simile a una sinfonia musicale che occupò, insieme all’intero flusso di ricordi condiviso da Rachel, non più di cinque minuti.
La mattina seguente, nella sala del maxischermo, il volto di Karin diede loro il buongiorno.
«Oggi ci sarà un cambio di programma. Prima di sottoporvi a ulteriori trattamenti, siete invitati a un confronto con i due principali responsabili di questa sperimentazione: il signor Gordon Stockwell e il dottor Mohan Tivari. Prego, seguite le indicazioni luminose fino all’uscita dell’area controllata, da cui vi condurrò io stessa alla sala riunioni.»
Il comando elettrico sbloccò la porta verso il corridoio circolare. Lo percorsero a lungo oltre gli ambienti che avevano visitato fino a quel giorno, fino all’ultima spia verde sopra a una porta blindata a doppio battente. Un altro comando elettrico fece scattare la serratura, e si ritrovarono negli spazi comuni della Neurotech, dove circolavano ricercatori in camice e membri del personale.
Karin li accolse con lo stesso sorriso plastico che li aveva accompagnati in quei mesi dallo schermo. Dunque era dotata di braccia e di gambe, strette in un tailleur aderente e di modesta statura, osservò Rachel, nonostante le scarpe col tacco. Nessuno, però, aveva lo spirito di fare commenti circa l’apparizione in carne e ossa dell’assistente virtuale. Nelle tute bianche, esposti a quel via vai di gente che badava ai propri affari, si sentirono spiacevolmente esposti.
«Per di qua», li invitò Karin, dobbiamo salire all’ultimo piano.
All’interno dell’ascensore il disagio non fece che crescere, con Karin che continuava a fissarli con quel sorriso inalterabile e la chioma come disegnata.
Il campanello segnalò l’arrivo al piano, e le porte si aprirono su una stanza con vetrate a tutta parete rivolte alle campagne, un tavolo ovale da una trentina di posti ne occupava la lunghezza.
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«Prego, potete sedervi qui.» Ogni posto era dotato di un tablet integrato, e i loro erano sollevati ad angolo per facilitare la visione. Quindi Karin li lasciò per raggiungere Mohan Tivari, seduto all’estremità opposta. Dietro ai due era acceso un grande schermo, fissato al muro con un braccio metallico, da cui li scrutava il volto arcigno di Gordon Stockwell in collegamento remoto.
«Grazie per averci raggiunto», esordì Tivari. «Non è il caso di ricamare troppo su quanto ho da dirvi, tanto più che il signor Stockwell ha pochissimo tempo, e ci ha fatto il favore di presenziare a questa riunione per confermare le mie parole: l’esperimento è abortito, mi dispiace.»
Un’onda di malessere investì i sei compagni. Le bocche inaridite erano incapaci di articolare anche un semplice perché.
«Capisco il disappunto che leggo nei vostri sguardi, ma credetemi, siamo noi i primi a essere amareggiati. Avete idea di quanto siano costati alla fondazione questi sei mesi di lavoro? Il personale, le risorse logistiche e tecniche, un danno che colpisce l’intera comunità scientifica.» Tivari si interruppe grattandosi la fronte, quasi fosse sull’orlo di un crollo emotivo. «E la responsabilità del fallimento è soltanto vostra.»
Il dottore fece un cenno a Karin, che premette qualche tasto del suo portatile attivando i visori in fondo al tavolo.
«Abbiamo rilevato», proseguì, «che due di voi hanno avuto un incontro al di fuori dell’edificio, scambiandosi informazioni riservate. L’incidente ci è stato segnalato ieri sera da una revisione dei video di sorveglianza.»
Sui tablet comparve il filmato in bianco e nero di Rachel che si avvicinava a VIC3, accompagnandola per un tratto di strada muovendo le labbra. A giudicare dall’angolo di ripresa, la telecamera doveva essere fissata a uno dei lampioni lungo la facciata.
«Seppur breve, l’evento rappresenta per noi un fatto grave. Accordandovi fra di voi avete interferito col processo di fusione. Riteniamo pertanto corretto richiedervi il risarcimento - per quanto simbolico - del danno che avete provocato all’istituto. Come era specificato nel contratto di reclutamento, perderete il diritto a ogni ulteriore compenso, e dovrete rimborsare alla Neurotech quanto vi è stato finora corrisposto.»
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«Un momento!» intervenne ZAC4. «Quello che lei dice, dottore, si riferisce ovviamente alle sole persone presenti nel filmato. Nessuno di noi, a parte BET e VIC, ha comunicato con gli altri all’esterno, a quanto mi risulta.»
«Ovviamente no», tuonò Stockwell dallo schermo. «Il provvedimento riguarda indistintamente tutti i presenti.»
«È una follia, non ho fatto nulla!» ribatté ZAC levandosi dalla poltrona. «Perché devo rimetterci se qualcun altro ha violato le regole?»
«Infatti!» Lo sostenne PAL1. «Abbiamo tutti investito molto in questo progetto, non solo la Neurotech. Abbiamo sacrificato il nostro tempo, sopportato scompensi indescrivibili.» La voce gli tremava, alterata. «Siamo stati puntuali e obbedienti fino alla fine!»
«A questo punto», si inserì nel discorso VIC3, «mi chiedo che c’entro io. È stata BET ad avvicinarmi, davanti all’ingresso. Non le ho certo chiesto di farlo.»
«Proporrei di calmarci tutti un istante», prese la parola MOR2. «Proviamo a cercare una soluzione di compromesso. Sulla carta, il dottor Tivari ha ragione, una violazione c’è stata. Ma perché non proseguire l’esperimento noi quattro? Una volta ricevuto il compenso, lo divideremo in sei parti uguali con le due persone espulse. In fondo, BET non ha agito in malafede: il suo intento era condividere un’informazione a beneficio di tutti.»
Anche RIA5 disse la sua, sostenendo che proprio perché nessuno aveva inteso danneggiare nessuno, non aveva senso incassare le accuse della Neurotech. Si stavano attaccando a un cavillo contrattuale per rifiutarsi di pagarli. O proseguivano tutti, oppure nessuno. E in quel caso dovevano unire le forze per avviare una causa legale contro i veri sciacalli.
ZAC, infine, riprese la parola, dichiarandosi favorevole a proseguire in quattro, ma senza dividere i compensi.
«Avete finito?» chiese Mohan Tivari. «Non è in alcun modo possibile proseguire l’esperimento in forma ridotta, mi dispiace. Ciò che è accaduto ha compromesso il rilevamento statistico dei risultati. Il test è invalidato e lo devo ripetere: siete tutti responsabili. C’è stata infatti una seconda infrazione. Nel corso della notte è avvenuto un incontro non autorizzato nella stanza di MOR2, fra tutti voi partecipanti. Pensavate fosse così semplice eludere il nostro sistema di sorveglianza?»
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Di nuovo, un montaggio di immagini a circuito chiuso, catturate da vari punti del corridoio, sfilò davanti agli occhi dei colpevoli, mostrando ognuno di loro uscire dalla propria stanza per recarsi all’appuntamento.
«In questo caso, ci troviamo di fronte a una violazione coordinata e deliberata del codice, cioè un atto cospirativo ai danni della Neurotech. Si tratta di un’infrazione grave al pari di un incontro esterno e, come tale, prevede la rescissione del contratto. Leggete bene ciò che avete firmato, tornando a casa.»
«Consideratevi dimessi», sentenziò Stockwell, chiudendo il collegamento.
Essendosi abituata a lasciare l’istituto la domenica sera, Rachel si ritrovò quasi spaesata al di fuori dell’edificio.
Erano appena le undici del mattino e si chiese che avrebbe fatto di quella giornata.
Vide ZAC4 passeggiare intorno a un’aiuola, fumando una sigaretta. Mentre gli si avvicinava titubante, anche gli altri quattro sbucarono dall’ingresso. Una volta firmate le pratiche di dimissione, si erano tutti cambiati e avevano preso l’uscita, senza un ordine preciso.
«Assurdo, ci siamo giocati centoventi mila sterline, così», commentò ZAC schioccando le dita. «Un vero capolavoro, ragazzi.»
«Sì, ma che scena pietosa, là dentro», ribatté RIA. «Litigare per quattro soldi davanti a quei due stronzi, dopo tutto quello che abbiamo vissuto insieme.»
«Sarà poco per te, riccona! Io con quei soldi ci ho versato l’anticipo per l’auto nuova, e ho pure firmato un finanziamento per il saldo. Con che le pago le rate?»
«ZAC non ha tutti i torti», disse MOR. «Con che faccia torno da mia moglie? Le avevo promesso una vacanza…»
«A nessuno viene in mente che BET ha violato le regole per informarci di un pericolo?» li investì RIA. «L’ha fatto per amicizia!»
«Si, bella iniziativa. Davvero geniale, grazie», disse PAL. «Però nessuno aveva chiesto a BET di intromettersi…»
«Mi chiamo Rachel! Lo sapete benissimo.»
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Seguì un lungo, scomodo silenzio. Per un’ultima volta, le loro menti si sincronizzarono e avvertirono lo stesso pensiero diffondersi nel vuoto che li separava: se avessero voluto mantenere un rapporto fra di loro, a quel punto, avrebbero dovuto ripresentarsi usando i loro veri nomi. Sarebbe stata una nuova partenza, che li avrebbe riportati a quell’unità che avevano sperimentato nella vasca. Eppure, lì fuori, la risonanza sembrava loro già qualcosa di irreale, e insopportabile. Quei nomi che ben conoscevano, ma nessuno aveva mai usato, erano associati agli episodi e alle fantasie imbarazzanti che si erano riversati l’un l’altro addosso per mesi senza controllo. Nessuno, nemmeno RIA, ebbe l’ardire di farsi avanti, e pronunciare il proprio nome a voce alta stendendo la mano. A parte Rachel tutti si voltarono, invece, allontanandosi a passi distesi, avendo cura di prendere ognuno una direzione diversa.
Quell’estate, Rachel non andò al MIT per concludere il suo dottorato. Col conto in banca decurtato del suo compenso, non poteva permettersi di mantenersi sei mesi negli Stati Uniti. Anche se la sua famiglia aveva rimesso in sesto le proprie finanze, abituata com’era all’indipendenza, non se la sentiva di chieder fondi per gli studi ai genitori. Riuscì invece a imbucarsi al volo in un progetto interdipartimentale della facoltà di Antropologia. Uno studio di nicchia, senza grandi sbocchi professionali, ma che poteva garantirle qualche pubblicazione, forse aprirle una carriera accademica. Partì alla volta del Messico per fare ricerca sui fenomeni di allucinazioni auditive. Avrebbe passato un anno in un villaggio rurale del Michoacàn, dove tutti gli abitanti dichiaravano di ‘sentire delle voci’.
Col passare delle settimane, lontana dalla vita cittadina e dagli impegni universitari, vide guarire le proprie ferite. Il cielo blu cobalto sopra la sua testa, il cratere fumante del Parícutin all’orizzonte, la cortesia dei campesiños, rendevano tutto più relativo. Per qualche tempo continuò a chiedersi che ne fosse stato di Stratter, se c’era qualcosa di vero nelle sue rivelazioni, se la Neurotech l’avesse infine messo a tacere. Ma un giorno capì che infondo non gliene importava nulla, non aveva comunque modo di verificare, e aveva solo da guadagnare lasciandosi alle spalle l’intera faccenda. Ripensando ai suoi cinque compagni d’avventura, non provava rancore. Non erano la squadra di eletti destinati a salvare il mondo, come si era talvolta immaginata, erano poveri stronzi come chiunque altro e questa, stranamente, era una buona notizia. Riuscì a stringere nuove amicizie, si lasciò crescere i capelli che nei primi mesi assunsero la rigidità informe di un casco da motociclista, ma poi ripresero vita in una chioma di ricci biondastri, schiariti dal sole dei tropici.
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Alla fine di novembre, Rachel partecipò a un convegno di ricercatori a Città del Messico, dove incontrò Guillermo, un antropologo trentenne, professore associato alla UNAM. Gli parlò con passione del lavoro che stava svolgendo e lo invitò a visitarla al pueblo. Guillermo si fermò in quell’occasione una settimana, offrendole la sua esperienza nel guadagnare la fiducia degli informatori. Poi tornò per un mese, ma finì per restare, si innamorarono.
La mattina Rachel si svegliava all’alba, per assistere al sorgere del sole dal terrazzino di fronte alla porta di casa, sempre fiorito di oleandro e brugmansia. Passava poi la giornata intervistando la gente del posto, raccogliendo una corposa documentazione fotografica, catalogando miti e leggende di quella cultura ancestrale. Il processo aveva una piacevole spontaneità, non si potevano aggredire gli indios con domande personali a bruciapelo. Bisognava entrare in confidenza, farsi accettare, assimilando le loro abitudini e trascorrendo ore in libere conversazioni. A Rachel piaceva la sua nuova vita, al riparo dagli eccessi e dalle miserie della civiltà industriale. Ma ciò che le dava più gioia, era visitare donna Inés, una vedova ottantenne che viveva isolata in una casetta scavata nella roccia, oltre i margini del villaggio. Lì poteva trascorrere pomeriggi interi, senza curarsi del passare del tempo, immersa assieme a Inés in chiacchierate interminabili, senza aver mai bisogno di aprire la bocca.