Un cubo di tavole d’abete grezzo, inchiodate strette senza fessure. La cassa è lunga un metro e mezzo, alta e larga altrettanto.
Agata è stata la prima a vederla, al centro del vialetto d’ingresso, quando è uscita per andare a scuola.
«Papà, perché c’è quella cosa in mezzo alla strada?»
Siamo tornati fuori tutti insieme. Io e Irene ci siamo guardati smarriti.
«Non vi avvicinate» dice mia moglie.
Abitiamo in cima a un colle, in aperta campagna. Per arrivare qui, occorre fare due chilometri di strada sterrata. Qualcuno deve averla lasciata stanotte.
«Ire, dobbiamo spostarla da lì, è già tardi».
«Papà, voglio vedere cosa c’è dentro. Non potete aprirla senza di me».
«No, adesso la porto nel fienile. Tu vai a scuola e ce ne occupiamo io e la mamma».
Infilo le forche del transpallet sotto alla base della cassa e sento qualcosa muoversi all’interno. Un grido ci fa saltare tutti indietro, dei colpi percuotono le travi. C’è qualcosa di vivo lì dentro.
«Papà, ho paura». Agata si stringe a Irene.
«Metti quella cosa nel fienile» dice lei. «Accompagniamo Agata e andiamo a chiamare Nazir».
La cassa non è molto pesante, dev’essere quasi vuota. La sistemo vicino al trattore e saliamo tutti in macchina.
Poco dopo, stiamo guardando nostra figlia superare l’ingresso dell’Istituto Primario di Cerveta, il comune dove frequenta la terza elementare. Il Comando dei Carabinieri è sul lato opposto della strada e il maresciallo ha un figlio dell’età di Agata, siamo ottimi amici. Ci siamo conosciuti dieci anni fa, poco dopo l’arrivo, anche loro freschi di trasferimento. Due famiglie di forestieri in un piccolo borgo dove tutti sono parenti.
Irene apre la portiera per andare in caserma.
«Aspetta» la blocco, senza spegnere il motore della Jeep. «Cerchiamo di capire cosa c’è dentro la cassa, prima di coinvolgere Nazir».
1
«A che stai pensando?».
Non rispondo. Irene fissa la strada.
Tornati a casa, prendo la motosega e mi avvicino all’involucro di legno.
« Cosa vuoi fare?».
«Tagliare una finestrella, qui sul fianco».
Come avvio la motosega, dalla cassa si levano grida ancora più acute e raffiche di colpi.
«Passami la torcia». Quando sto per illuminare l’interno, vedo una piccola mano aggrapparsi al bordo del pertugio. Subito dopo, il muso raggrinzito di una scimmia si affaccia. Gli occhi tondi e vicini sono sgranati dal terrore, e con entrambe le mani comincia a tirare i bordi dell’apertura.
«Merda, è una scimmia cappuccino ».
«Chiamiamo Nazir, ti prego» dice Irene esasperata.
«Ok».
Il tempo di riporre la motosega e prendere in mano il telefono, e i colpi diventano cannonate. Dai pugni, la scimmia è passata a lanciarsi di peso contro i lati della cassa. Per la sua taglia, sembra parecchio forzuta. Salta da terra fino a percuotere il coperchio, che dopo una serie di botte inizia a cedere.
Ci allontaniamo di qualche metro, e vediamo le mani pelose sbucare di nuovo dalla finestrella. La trave è ormai staccata, e il primate la sfonda.
«Oddio, sta uscendo!».
La scimmia si insinua nel varco e volteggia portandosi in cima al cubo di legno. Indugia qualche istante, scrutando noi e l’ambiente. La pelliccia nera che le copre il corpo e le braccia si apre in una macchia bianca sulle spalle e sul viso. Poi, d’improvviso, la lunga coda si tende, pronta a spiccare un balzo.
La vediamo scomparire tra i faggi, prendendo slancio dai rami, lasciandoci a bocca aperta accanto alla cassa vuota.
Per una settimana, sentiamo le urla della scimmia nei boschi. È un gracchiare che si alterna a sibili lamentosi.
2
«Non ti conviene sporgere denuncia» mi dice Nazir al telefono. «Come carabiniere, dovrei consigliarti di farlo. Pensaci bene però, rischi di beccarti una multa salata».
È di padre egiziano ma ha l’accento calabrese, perché è nato e cresciuto a Cosenza.
«Ma che colpa ne ho? Me l’hanno mollata qui».
«Sì, spiegalo alla Protezione Animali. Penseranno che hai voluto fare una sorpresa a tua figlia, un regalo esotico, ora vi siete stufati e volete liberarvene. Cerchiamo di capire come è arrivata lì. Appena posso vengo su».
«Così mi aiuti a cercarla. È ancora qui in giro».
D’abitudine, ogni sera perlustro i dintorni col fucile da caccia. Intorno alla casa circolano dei lupi, che l’anno scorso hanno sbranato il nostro cane. È un bel momento però, appena dopo il tramonto c’è una calma speciale. Ho imparato a distinguere gli animali dai fruscii nei cespugli, le famiglie di cinghiali, i tassi e le volpi. Ora i rumori vengono anche dall’alto. Le chiome degli alberi si scuotono. Poi tutto si acquieta e riparte lontano. Col buio rientro in casa, mentre le grida echeggiano fra i colli.
«Hai paura?» chiedo ad Agata mettendola a letto.
«Della scimmia? No, perché? Le scimmie cappuccino sono buone. Ho visto il video di una signora che le faceva il bagno».
Il giorno dopo è l’inizio delle vacanze estive, all’uscita della scuola i genitori si salutano augurandosi buone ferie. Ci accordiamo per una pizzata. Negli anni, la gente di Cerveta ci ha accolto, e ora abbiamo la sensazione di essere sempre vissuti qui.
Rientrando a casa, troviamo la scimmia seduta sulla soglia. Ci aspetta.
Agata è fuori di sé dalla gioia.
«Papà, è bellissima! Sembra una persona».
«State indietro, è un animale selvatico».
Mi avvicino alla porta circospetto, con le chiavi in mano, ma la scimmia non sembra impaurita né aggressiva. Come l’uscio si apre scivola dentro e corre verso la cucina.
«Ma perché l’hai fatta entrare?» dice Irene. «Ci sfascerà la casa».
«Perché adesso è in trappola. Dopo pranzo arriva Nazir e se la porta via».
«Voglio entrare a vedere che fa» dice Agata.
3
«Aspetta qui. Vado prima io».
Dopo qualche minuto di osservazione, torno fuori a riferire.
«Non sta rompendo niente. Apre le antine e i barattoli della dispensa, ma poi li richiude e li rimette a posto».
Rientrando in casa, la troviamo che esplora le camere da letto. Fruga in tutti i cassetti, ma senza fare troppo casino. Io e Agata la seguiamo affascinati, il suo carattere mansueto ci stupisce.
Intanto, Irene ha messo in tavola il pranzo: avanzi di una frittata del giorno prima, prosciutto crudo, bufala e melone. La scimmia si unisce a noi attorno al tavolo circolare, prendendo posto su una sedia libera. Educatamente, aspetta che sia la padrona di casa a servirla. Irene le presenta i cibi e lei fa sì e no con la testa. Frittata e melone vanno bene, mentre assaggiando il prosciutto fa una smorfia terribile e un verso schifato. Ci mettiamo tutti a ridere.
«Non può essere selvatica» dice Agata.
«Forse è una bestia da circo» risponde Irene. «Vista da vicino, non sembra neanche tanto giovane».
«Sono molto intelligenti e imparano a fare tutto. In America i ciechi le usano come animali guida» aggiungo io.
«Guardate le dita, sono proprio come le nostre» osserva Agata.
«A parte il pollice opponibile». Alzo la mano aperta mostrandole il movimento.
«Cosa vuol dire?».
Sto per risponderle, quando sentiamo un’auto che risale la strada e parcheggia nel patio. Nazir bussa alla porta ed entra sorridendo, ma alla vista della scimmia sgrana gli occhi. Lei salta giù dalla sedia e fugge in camera degli ospiti, la più distante dalla cucina, in fondo al corridoio.
«Che succede?».
«Siamo rientrati ed era davanti alla porta. Deve averci studiato, in questi giorni, poi la fame deve averla convinta».
«Ah. E ha mangiato a tavola con voi?» chiede notando i resti del pranzo.
«Sì».
4
Nazir passeggia per la stanza, ispezionando la cucina come fosse una scena del crimine.
«Di sicuro è come vi ho detto. Tanta gente è fissata con questi animali. Anche se in Italia non è consentito acquistarli, si trovano. Provano ad ammaestrarli, ma poi si rendono conto di quanto sono impegnativi e li abbandonano nei boschi. Succede di continuo».
«E ora che facciamo?»
Nazir mi appoggia una mano sulla spalla.
«Portami a vedere questa cassa».
Nel fienile l’aria ristagna, il caldo quest’anno è arrivato a fine maggio e le prime ore del pomeriggio sono le più torride. Giriamo attorno alla cassa e Nazir chiede: «È arrivata così, senza etichette, nessuna scritta o altro?».
«Così, di notte, mentre dormivamo».
«E tu l’hai toccata?».
«Ho solo tagliato quella tavola, per guardarci dentro. È di lì che è uscita».
«Hai un piede di porco?».
Vado in attrezzeria e gli porto l’arnese.
Nazir è alto e massiccio. In due mosse fa saltare il coperchio.
«Lì sul fondo c’è una busta di plastica» dice affacciandosi al bordo. Strappiamo l’involucro di cellophane. Contiene un libretto veterinario.
«La tua amica si chiama Greta» legge Nazir. «E indovina chi è il proprietario?».
«Che ne so».
«Sei tu, guarda» dice mostrandomi l’anagrafica. «Diego Salas».
Mi si congela il sangue.
«Non hai detto che era proibito tenere questi animali? Com’è possibile ci sia un libretto?».
«Era permesso fino al ’96. Controlla la data».
«Non me lo dire».
«Questa ragazza è tua da diciotto anni!».
«Non l’ho mai vista prima Nazir, ti assicuro».
5
«Allora avranno falsificato il libretto, in modo che potessi tenerla senza problemi legali. Ma perché hanno scelto proprio te? Qualcosa non torna. Conosci qualcuno che potrebbe tirarti uno scherzo del genere?»
«Forse un compagno di università, ai tempi ci andavano pesanti» abbozzo una balla. Ma ho perso l’abitudine a mentire, Nazir già mi scruta diffidente. «Non ho più sentito nessuno da allora, però…» chiudo impacciato.
Accompagno Nazir alla volante. Esita a risalire, il suo sguardo è imbarazzato, risentito. Gli vedo sfrecciare dietro agli occhi i ricordi delle cene, le bottiglie stappate a Capodanno, le scampagnate coi bambini.
Io abbasso la testa, con le mani in tasca.
«L’avranno falsificato» gli dico. «Sarà come dici tu, qualcuno che voleva liberarsene. Hanno scelto uno a caso, che abita nel posto adatto…».
«È difficile, nessuno si prende tanto disturbo. C’è il timbro del veterinario, farò qualche ricerca. Intanto il libretto lo porto giù al Comando. Se ti viene in mente qualcosa, fatti sentire».
L’ultima frase arriva come una sassata, col motore già acceso.
Rientro in casa mesto, mentre Agata mi accoglie raggiante.
«Allora? La possiamo tenere?».
« Sì, ma…»
«Evviva! Vieni a vedere, papà»
Mi porta nella stanza dei giochi, dove la scimmia sta pedalando su un vecchio triciclo. Come mi vede, mi salta in groppa e mi affonda la testa nel collo, festeggiandomi con un guaito affettuoso.
Irene ci raggiunge, ha la faccia seria.
«Ho scoperto qualcosa su di lei. Si chiama Greta ed è maggiorenne» cerco di stemperare gli umori.
«Avrà anche la patente?» ribatte Irene caustica.
6
Dopo aver messo a letto Agata, ci confrontiamo davanti al camino spento, esausti. È occorsa un’ora per convincerla che non poteva dormire con Greta, che le si aggrappava stretta al petto. A tirarla via con forza, temevamo di innervosirla, che mordesse o graffiasse. Abbiamo spiegato ad Agata che era troppo pericoloso, magari col tempo, ma non ora. Alla fine ha capito, ed è stata lei a sciogliere l’abbraccio. Allora Greta si è fatta condurre per mano nella stanza degli ospiti, dove le abbiamo rimboccato le lenzuola come fosse anche lei una bimba. Quando alla fine ci siamo seduti, ho raccontato a Irene del libretto sanitario, ed è scoppiata subito a piangere.
«Lo sapevo, ci hanno trovato. Dobbiamo andarcene di qui».
«Macché, non è possibile. Ci sarà un’altra spiegazione».
Irene si alza inviperita.
«È un messaggio per te, Diego. Piantala di negarlo, lo sai che è così. Ti avvisano che sanno dove sei, e stanno per arrivare. È tipico loro. Prima ti fanno cacare addosso».
«Se è come dici tu, non vale la pena fare i bagagli. Non andremmo molto lontano».
Tre giorni dopo, io e Nazir siamo all’Happy Time, un pub sulla provinciale appena fuori Cerveta. Ci andiamo un paio di volte al mese, solo noi due. Per calare la maschera ho scelto un tavolo in disparte, dove nessuno ci possa sentire.
«Vito la Scimmia, era così che mi chiamavano».
«Perché la Scimmia?».
«Mi vedi? Ecco, dovevi vedermi vent’anni fa. Ero un fascio di muscoli. Un metro e sessantotto di nervi e cocaina. Mi arrampicavo sulle grondaie, saltavo dai cornicioni. Avevo imparato la tecnica da un tizio del Bengala. Il clan ha pagato tutto l’addestramento. Poi disattivavo l’allarme, aprivo la porta agli altri e facevamo quello che dovevamo fare».
«Non eravate lì a rubare l’argenteria».
«No. Eravamo quelli che sistemano le cose. Insomma, regolavamo i conti con chi non rigava dritto».
Nazir non dice nulla, fissa con amarezza il boccale ancora colmo.
«Mi dispiace davvero, ma non potevo dirtelo. Ti sto mettendo nei guai. Quando aderisci al programma diventi un’altra persona, e devi crederci fino in fondo, giorno dopo giorno. Il minimo sgarro a questa regola può costar molto caro alle persone che ami. Cerchi di rifarti una vita ma, non è facile».
Gli occhi di Nazir si fanno fessure.
«Quanta gente hai ammazzato?».
7
L’estate scorre tranquilla, senza altre sorprese.
Greta è diventata parte della famiglia. Quando la vediamo sparire nei boschi, ci manca. Temiamo che si sia persa, ed è un tormento. Agata si fa taciturna ed esce di continuo a chiamarla. Appena l’afa pomeridiana si stempera mi chiede di andare a cercarla, ma al di là degli orti la foresta si infittisce e i cespugli di more sbarrano i sentieri.
«Vedrai, tornerà per l’ora di cena».
Infatti, appena mettiamo i piatti in tavola, sbuca dalle frasche.
Conosce tutti i giochi classici, nascondino, acchiapparella. La sera si esibisce per noi in acrobazie sull’altalena appesa alla quercia in mezzo al patio.
Le abbiamo comprato dei vestiti, perché quando sta in casa deve indossare un pannolino. È capace di fare i bisogni sul water, ma a volte non ci arriva in tempo.
Agata è diventata un idolo. I suoi compagni fanno a gara per venirci a trovare e poter stare qualche ora con la scimmia. Lei ci sa fare con i bambini, li intrattiene con le sue facce buffe, gli salta in braccio e li sfida alle capriole.
La sera, invece, è il mio momento. All’imbrunire, quando Agata dorme e Irene legge o guarda la TV, viene a cercarmi e mi si accuccia sulla spalla, seguendo ogni mio spostamento. Mi accompagna nella battuta serale intorno a casa, segnalandomi se avverte la presenza di qualche animale, anche molto lontano. Rientrando, mi siedo al tavolo sotto la veranda con una bottiglia di vino. Si alza una brezza tiepida, profumata di ginestra e sambuco, e lei rimane lì assieme a me, a contemplare la notte.
Verso la fine di agosto, sono le undici passate, la vedo agitarsi. Si rizza sulle gambe, mettendosi in piedi col collo teso. Per lei è la posizione più scomoda, che assume solo quando qualcosa la mette in allarme. Fissa la strada d’accesso, tremando.
8
Prendo il fucile e scendo due curve più sotto, tagliando per l’uliveto. Una berlina nera risale lo sterrato, sollevando una scia di polvere dalla ghiaia inaridita.
Lascio che mi superi, accucciato nell’erba alta. Poi mi metto a seguirla passando per i campi. Sono gli uomini di Ciro Bonapasta, il mio vecchio boss.
Nazir mi ha confermato che a marzo sono usciti di galera, dopo dodici anni scontati grazie alla mia collaborazione con la giustizia. Erano tutti da ergastolo, ma le accuse più pesanti sono cadute, e i gregari sono già fuori per buona condotta.
Scendono dall’auto due figure corpulente, magliette nere aderenti e capelli rasati. Si stagliano nella luce arancione dell’ingresso, imbracciando due mitragliette Sig Sauer MPX, ne riconosco il profilo. Sessanta colpi in dieci secondi, se si girano non ho scampo. Mi apposto dietro alla quercia. Greta salta a terra e corre dietro alla casa.
«No! Che fai?» le sussurro.
Invece lei sbuca dall’angolo opposto e si appende alla gronda ululando. Gli uomini di Ciro si voltano, disorientati, e io li colgo alle spalle con due rose di pallettoni ravvicinate, che gli squarciano la schiena.
Greta non ha paura degli spari. Si avvicina ai corpi agonizzanti e mi guarda, come aspettando un segnale.
«Infame…» rantola uno dei due, girandosi a pancia in su.
Ricarico il fucile e glielo punto al cuore, ma Greta mi precede, si avventa sul suo viso e gli strappa gli occhi. Poi torna serena sulla mia spalla, mentre tutto mi si chiarisce.
Dodici anni fa, non ero stato il solo a tradire il clan. Assieme a me, c’era il mio vecchio compare Tony Tenaglia. Vedendo Greta cavare gli occhi a quel disgraziato, penso subito a lui - l’enucleazione delle vittime era la sua firma. Quando ammazzava qualcuno, si divertiva a torturarlo in quel modo prima del colpo finale, così che passasse gli ultimi istanti in un’atroce, cieca disperazione.
A Tony però era andata peggio che a me. Qualcuno lo aveva beccato prima che riuscisse a sparire e gli aveva restituito il favore scavandogli le orbite con un cucchiaino. La scimmia era senz’altro sua. L’aveva addestrata negli anni per servirlo e non aveva mancato di insegnarle i suoi giochetti più macabri. Ora l’aveva mandata a me, per proteggermi, sapendo che Ciro era sulle mie tracce.
9
Finisco i sicari mirando alla testa.
Due colpi di fucile nella notte, in aperta campagna. Cacciatori, nessuno ci fa caso da queste parti.
Irene invece corre fuori, nuda sotto la vestaglia scomposta.
È mezzanotte e si suda anche da fermi.
«Va a dire ad Agata che è tutto ok. Poi vi porto giù da Nazir, ma prima devi aiutarmi con questi».
Insieme spostiamo i corpi, apriamo il portello di ferro della fossa biologica e li gettiamo dentro.
«Pensi che le pareti reggeranno?» commenta Irene mentre verso quattro taniche di soda caustica. «Se la vasca si scioglie, l’orto si riempirà di resti umani bruciati».
«Dovrebbe reggere, sotto c’è mezzo metro di cemento armato».
Sono le tre e venti quando suoniamo alla caserma. Abbiamo gettato la berlina in un fosso e sciacquato via sangue e frammenti di ossa dalle scale. Il resto lo faranno le piogge.
Nazir esce con la faccia incarognita. Abita sopra gli uffici dell’Arma, e ogni tanto qualcuno lo sveglia in piena notte perché ha perso il cellulare. Quando mi vede salire col fucile in mano, il cipiglio si scioglie in un sorriso amaro.
«Ti affido Irene e Agata». Ci guardiamo negli occhi e non c’è bisogno di spiegazioni. «Lascio qui l’auto. Nel bagagliaio ci sono le loro valige».
«Falle salire» risponde.
Ci abbracciamo.
«Cipollina, il papi torna presto» appoggio la mia fronte su quella di Agata, morbida e bagnata di sudore. «Ora starai un po’ qui a casa di zio, sarà come una vacanza. Mi raccomando, non allontanarti mai da sola».
«Ma perché?».
«Domani la mamma ti spiega».
10
Dall’auto raccolgo solo una sacca di cartucce, un binocolo e Greta, che mi sale in spalla mentre prendo la via dei boschi. Quando Ciro Bonapasta era finito in galera, gli erano rimasti sei uomini fidati. Due sono nella fossa, ne restano quattro, che non tarderanno ad arrivare. Intorno a noi ci sono diecimila ettari di foreste, ma sapranno come trovarmi. Ciro mandava i suoi sicari a farsi le ossa in Colombia, dai narcos che ci fornivano la merce. C’ero stato anch’io per sei mesi. Se riuscivi a tornare, la selva era casa tua.
«Dobbiamo solo stare insieme e prepararci ad accoglierli» dico a Greta mentre intreccio un fascio di giunchi. Voglio costruire un giaciglio sui rami più alti di un sorbo e dormire un paio d’ore prima dell’alba.