Fu lo stomaco a svegliarlo. L’impulso di vomitare gli aveva contratto le viscere, spingendolo a voltarsi su un fianco. Ma il corpo era immobilizzato e finì per rigurgitarsi addosso, rischiando di soffocare.
Gli occhi aperti coglievano spiragli di luce. Dove si trovava? Cos’era il fetore che gli aveva smosso il conato? Il cranio pulsava, dolorante. Provò a muoversi piano, un pezzo per volta. La mano sinistra era libera, scoprì, e la protese verso la luce. Nel farlo, capì che il resto del corpo era schiacciato da un peso, ma poteva spingerlo via premendo forte con braccia e gambe insieme, all’insù.
Quando fu libero, montò sul cumulo di cadaveri fino a mettersi in piedi, per stimarne l’estensione. Impensabile fare un calcolo. L’hangar industriale in cui erano stipati doveva misurare un centinaio di metri, sul lato più corto. Quel che però non poteva sapere era quanto fosse profonda la distesa delle salme accatastate, un mare di carne putrescente che occupava ogni centimetro della vasca di cemento.
Per fortuna era finito in superficie. Si fosse risvegliato più in basso, non avrebbe avuto speranze. Magari ce n’erano altri vivi, là sotto. Oppure qualcuno intorno a lui. Fece qualche passo per esaminare i corpi più prossimi. C’era gente d’ogni tipo: giovani e anziani, uomini, donne, bianchi, neri, arabi e orientali, moltissimi bambini. Nessuno aveva ferite o segni che indicassero la causa della morte. Nulla si muoveva tranne l’aria, che sembrava ondeggiare nei miasmi del fermento organico.
Si chiese come uscire di lì. Grandi lucernari correvano lungo tutte le pareti, a ridosso del soffitto, irraggiungibili. I muri erano grigi e lisci, senza porte, sportelli o fenditure visibili.
Se erano stati portati là dentro, tuttavia, un punto d’accesso doveva pur esistere. Provò ad avanzare verso il muro più vicino, da cui intendeva proseguire lungo il perimetro, in cerca di un’apertura. Ricadde in ginocchio diverse volte, non era facile stare in equilibrio. Gli lampeggiò davanti agli occhi un’immagine: saltava su grandi materassi gonfiabili, nel parco giochi dove andava ogni domenica con sua madre, centotrentanove anni prima.
1
Accanto a sé vide un vecchio irrigidito nell’abito di lino bianco, che ancora stringeva il suo bastone da passeggio. Glielo strappò per procedere più speditamente.
Si trascinò a fatica per un tempo che non seppe calcolare. L’unica indicazione del passare delle ore era la luce diurna che filtrava dall’alto, sempre più fioca, prefigurando il momento terribile in cui sarebbe svanita del tutto. Ogni volta che si arrestava per riprendere fiato era assalito da frammenti di un’epoca remota, circondati da un abisso mentale. Vide la mano di suo padre che lo colpiva al viso, a quindici anni, per aver preso l’auto senza permesso. Si rivide in quinta elementare: in una prova di coraggio spalancava la porta del bagno femminile, dove una compagna orinava con la vagina scoperta, e osservava dal vivo la linea verticale per la prima volta. Flashback incongrui sfrecciavano per pochi istanti, accompagnati da una cefalea perforante. I ritagli tuttavia non erano completamente slegati, ma come racchiusi in una cornice temporale. Senza sapere come, sapeva che tutti provenivano dalla sua vita fino ai quarant’anni circa, ma era certo che da allora il tempo aveva continuato a scorrere almeno per un altro secolo, eppure nemmeno un istante di quel limbo cronologico era accessibile alla coscienza.
Quando fu sul punto di toccare la parete, qualcosa si mosse sotto di lui. Una mano gli afferrò un piede, facendolo cadere. Si voltò, e vide le cinque dita che artigliavano l’aria. Una voce femminile prese a chiamare dal basso: «Herupu! Herupu!»
Si mise a spostare le salme attorno alla mano. La donna era conficcata nel cumulo in posizione verticale. Appena fu riuscito a tirarla fuori lei si accasciò di lato, coprendosi il viso con le mani.
«Nande watashi? Nande watashi?» ripeteva piangendo.
La aiutò a riportarsi seduta, scrollandola per farla tornare in sé.
«Konna koto wa okoru hazu janakatta», continuava a lamentarsi la donna. «Nande watashi? Why me?» aggiunse in un inglese stentato.
«Perché tu? Non lo so perché tu. Ma dobbiamo uscire di qui. Con tutti questi corpi a decomporsi, presto l’aria sarà satura di gas. Se ci addormentiamo è finita».
«Tsūki», disse la donna gesticolando verso l’angolo del capannone alle sue spalle. «Tsūki…»
2
«Tsūki? Non capisco. Non parlo il giapponese».
«Tsūki…». La donna si premette due dita sulla fronte in un grosso sforzo di memoria. «Ventilation».
Gettò lo sguardo nella direzione indicata: molto lontano, quasi indistinguibili dal resto delle pareti, due grate metalliche si estendevano fino a sfiorare le travature del soffitto.
Quando le raggiunsero si era fatta notte. La luce esterna, tuttavia, era abbastanza forte da rivelare i contorni degli oggetti. Qualcuno, là fuori, aveva acceso dei fari molto potenti. Sembrava che i pannelli fossero fissati con un sistema a incastro, non c’erano viti. Cercò di infilare le dita nei fori circolari, ma non ci passavano.
«Prova tu!» disse alla donna. Le sue piccole mani riuscirono ad afferrare la grata. Le cinse la vita con le braccia, tirando assieme a lei all’indietro. Con un rimbombo fragoroso il pannello si sganciò, sfiorandoli nella caduta.
Si avvicinarono alla ventola per studiarne il moto circolare: enormi pale nere ruotavano silenziose su un telaio di raggi fissi. Contarono insieme: ogni dodici secondi, fra le due lamine sovrapposte si creava una corona di spicchi vuoti. Ma scompariva troppo in fretta per poterla attraversare.
«Se rimaniamo incastrati lì dentro, la ventola ci trancerà in due».
La donna fece cenno al corpo di una ragazza magra senza vestiti, mimando il gesto di sollevarla. Lo fecero insieme, ognuno da un lato, e presero slancio sincronizzandosi al movimento della ventola.
«Uno… due…»
«Forutsua!»
Il cadavere si incastrò alla base dello spicchio più in basso. Le pale si arrestarono con un ronzio insistente. Quando stavano per attraversarle, però, la forza del motore superò la resistenza dei tessuti organici. Il busto della ragazza precipitò all’esterno del capannone, le gambe ricaddero sul cumulo di corpi, mentre la ventola riprendeva il suo moto sommesso.
«Uno non basta! Appena si ferma dobbiamo aggiungere altri corpi, impilandoli sopra il primo».
3
Si misero in cerca di salme delle giuste dimensioni: abbastanza leggere da poterle sollevare, ma non tanto esili da essere troncate all’istante. Conclusa l’operazione, il macchinario vibrava ostruito.
«Sembra sicuro, passo io per primo».
Si infilò in un varco libero e fu investito dall’aria gelida, parecchi gradi sotto lo zero. I suoi piedi poggiavano su una pedana metallica, che proseguiva in una scala fino a terra: un ponteggio per le riparazioni della ventola.
Aiutò la donna a raggiungerlo. Battendo i denti, presero a scrutare l’ambiente all’esterno dell’hangar, accucciati dietro alla balaustra.
Aveva l’aspetto di un presidio militare: ampie baracche prefabbricate erano disposte in file ordinate, separate da un reticolo di strade. Camionette verdi pattugliavano gli isolati, illuminati a giorno con riflettori da stadio. Il personale e i soldati indossavano maschere antigas e tute anticontaminazione.
Pochi secondi dopo, il cielo fu scosso dal rombo di un velivolo in avvicinamento. Presto un gigantesco elicottero a doppio rotore fu sopra di loro, obbligandoli a reggersi al corrimano per non essere spazzati via.
Come i lembi di una scatola di cartone, i due spioventi del tetto dell’hangar si aprirono verso l’alto, azionati da immensi pistoni e tiranti che ne percorrevano la lunghezza. A sua volta l’elicottero aprì il portellone inferiore, da cui piovve una cascata di corpi morti, centinaia, simili a naufraghi liberati dalla pancia di una balena.
Il rumore era assordante. La donna si piegò in due reggendosi la fronte.
«Il mal di testa! Ce l’ho anch’io. È come un martello pneumatico dentro al cervello».
«Aneurysm. We all had aneurysm» disse la donna.
Aveva senso. Tutta quella gente era morta per un aneurisma, questo spiegava la mancanza di lesioni o altri segni di malattia. Anche lui e la giapponese dovevano esserci passati, ma erano sopravvissuti al trauma cerebrale.
«Come fai a saperlo?».
«I am scientist. I make Demetrax». La donna si inginocchiò coprendosi il viso e ricominciò a piangere. «Konna koto wa okoru hazu janakatta. This was not supposed to happen…».
4
«Che cosa non doveva succedere? Dimmelo!».
Aveva un caschetto corto con la frangia, la faccia larga, lo sguardo smarrito del miope che ha perduto gli occhiali. Poteva dimostrare quarantacinque anni, secondo i vecchi standard. Cioè l’età in cui il suo invecchiamento era drasticamente rallentato grazie al Demetrax.
«Dove siamo? Avanti, parla!».
«Don’t know. Somewhere in desert. There are four disposal center in world. Escape… impossible!»
«Sei una di loro!». Col rovescio della sinistra, le diede uno schiaffo che la stese sulla grata. Si guardò la mano: era grande, forte. Doveva essere un uomo alto e robusto.
La sollevò per il bavero e le diede altri due schiaffi col palmo della destra. La testa della donna ricadde all’indietro, intontita. La violenza, sentiva, gli era familiare, scorreva nelle sue vene come un’abitudine ben radicata. Le strinse le mani attorno al collo e iniziò a serrare i muscoli, mentre lei emetteva un biascichio strozzato.
Guardandola negli occhi si fermò, lasciandola ricadere schiena a terra. La donna si dimenava al suolo, commiserandosi, un rivolo di bava le usciva dalla bocca. Di nuovo la agguantò per il colletto della camicia bianca, sollevandola come una bambola di pezza.
«Sei già stata in uno di questi campi?».
«Hai. I make research. I am genetic scientist…».
«Voglio che mi porti da qualcuno che comanda. Guarda che ti ammazzo!».
Aveva ancora accanto a sé il bastone del vecchio. Lo impugnò e lo sollevò sopra la testa della scienziata.
«Ok, ok. We go to camp director». La donna si riportò in piedi alzando le mani.
Scesero le scale di ferro e si spostarono furtivi attraverso il campo, procedendo radenti alle facciate delle baracche. La giapponese sembrava sapere come orientarsi, i campi di smaltimento dovevano avere tutti la stessa struttura.
«That one at center. With Kono Pharma flag».
Sul tetto della baracca indicata dalla donna sventolava una bandiera bianca con una ‘K’ stilizzata al centro.
Girarono intorno all’edificio di lamiera fino a una finestrella sbarrata. All’interno c’era un salotto con due divanetti e una stufa, lo schermo di un computer acceso sopra una scrivania e dietro a questa una poltrona da ufficio, vuota. La porta era aperta, entrarono nella stanza riscaldata chiudendosela alle spalle.
5
«Aspetta lì e sta’ zitta!» ordinò alla donna, indicando un angolo in ombra dietro a una cassettiera portadocumenti.
Si udì lo scroscio di uno sciacquone. Silenziando i propri passi, si appostò dietro alla porta del bagno. Sentì scorrere l’acqua del rubinetto e ruotò il bastone dietro alla schiena, come un battitore pronto a colpire una palla da baseball. Non appena la porta si aprì, scaricò il colpo schiantando l’asta sul viso del direttore. L’uomo crollò a terra stordito, si rigirò sulle ginocchia per sollevarsi, ma il bastone si abbatté altre due volte sulle vertebre cervicali, stendendolo a terra inerme. Lo sollevò di peso e lo mise a sedere sulla poltrona girevole. Sulla scrivania fumava una tazza di tè, gliela gettò in faccia facendogli riprendere i sensi. Poi si portò alle sue spalle e gli arpionò la gola col manico ricurvo del bastone, che incastrò nel poggiatesta con un movimento sicuro. Erano gesti mirati, precisi, come li avesse compiuti dozzine di volte in un addestramento marziale di cui non aveva alcuna reminiscenza.
Si riportò davanti al direttore, che aveva gli occhi sgranati e il respiro strozzato, e mise a fuoco il badge pinzato alla giacca militare.
«Colonnello Elias Panagyotis» disse strappandogli la placca d’acciaio sbalzato dal taschino. «Parli la mia lingua?».
«Sì» biascicò l’uomo sputando pezzi di incisivi dalla bocca impastata di sangue.
«Dove siamo?».
«Ėvenkijskij Rajon».
«E dove cazzo è Ėvenkijskij Rajon?».
«Nel Territorio di Krasnojarsk, Russia siberiana settentrionale».
«Cosa mi è successo? Perché mi trovavo là dentro? Che cazzo è quella montagna di morti?».
Il colonnello lo fissava con gli occhi arrossati, masticando grumi di sangue e saliva, senza fiatare. Girò attorno alla scrivania riportandosi alle sue spalle, facendo leva sul bastone per stringere la morsa di soffocamento. Il corpo del colonnello iniziò a dimenarsi sulla poltrona, fino ad alzare una mano in un gesto di resa.
6
«Hai subito un danno cerebrale a causa di un’incompatibilità genetica col Demetrax 2145».
«Il Demetrax? Era quel vaccino contro il cancro. Non si parlava d’altro, dicevano che allungava la vita… È da allora che i ricordi svaniscono».
«È normale».
«Come normale? Non è normale per niente!»
«Nel tuo caso sì, ascolta: centosette anni fa, la Kono Pharmaceutics ha lanciato il Demetrax. Un farmaco innovativo, che stimola la crescita di un’appendice latente dell’ipofisi, la zona D, sfruttando un gene degli squali. Questo istruisce le cellule di tutto il corpo a rigenerarsi all’infinito con estrema precisione. Purtroppo, col tempo, abbiamo constatato che in certi pazienti il gene si corrompeva dopo qualche decennio di assunzione. La zona D si necrotizzava, causando un aneurisma. La percentuale di sopravvivenza è inferiore allo 0,02% e, in questi rari casi, la memoria a lungo termine associata alla zona D deperisce con essa».
«Però avete continuato a somministrarlo, eliminando le vittime come rifiuti in queste discariche umane!».
«I benefici erano troppo grandi, non si poteva tornare indietro. L’umanità si era abituata all’idea di essere immortale. Bisognava solo evitare di scatenare il panico, l’incompatibilità riguarda una percentuale insignificante di soggetti».
«He’s lying!» intervenne la giapponese, sbucando da dietro l’archivio col dito puntato al colonnello.
«Mi stai mentendo?». Con un calcio spinse la sedia girevole contro alla parete, poi premette la suola di una scarpa sull’addome del militare, ficcandogli la punta dentro allo stomaco. «Quella donna era là dentro con me. Perché lei ricorda ogni cosa?».
«Dipende dal suo DNA, non funziona sempre allo stesso modo. Senti, io sono solo un ufficiale, eseguo degli ordini. Quel che ti ho detto è vero, ma poi è sorto un altro problema. La popolazione stava crescendo a dismisura. Nonostante la fusione fredda avesse risolto il problema energetico, le risorse alimentari iniziavano a scarseggiare. Per la fine del secolo eravamo arrivati a diciotto miliardi. Si è deciso di sfruttare il rigetto genetico come soluzione estrema. Il Demetrax è stato modificato per risultare incompatibile, nel tempo, con un numero sempre crescente di soggetti. Il cambiamento è stato molto graduale, così che i civili non se ne avvedessero, ma ha funzionato: oggi, nel 2145, siamo tornati a nove miliardi. Ma occorre arrivare a cinque per avere una soglia di tolleranza».
7
Ritirò il piede dalla pancia del colonnello e attraversò la stanza, sedendosi a terra con la schiena appoggiata alla parete di latta.
«Come decidete chi resta e chi muore?».
«Io non decido proprio un cazzo. La tua amica sì, invece, è il suo lavoro. L’ho vista qui un sacco di volte. Comunque sia, non siamo dei mostri, la selezione non è individuale. Ottimizziamo ciò che avverrebbe in natura. Ogni persona in quell’hangar ha vissuto diversi decenni in più di quanto avrebbe fatto senza il Demetrax. Hanno goduto di ampie opportunità. Come si può credere di poter vivere in eterno continuando a riprodursi? Qualcuno dev’essere sacrificato. Si fa una mappa genetica della popolazione e si individuano deficit ricorrenti: i meno intelligenti, i più deboli, gli antisociali. Ma nessuno lo vuole accettare, quando arriva il suo turno. Come quella donna laggiù, che fino a ieri individuava i marcatori delle fasce sacrificabili. Ora che qualche collega ha marcato i suoi geni, però, è inorridita come chiunque altro».
«E i bambini?». Scattò in piedi, tornando a dominare la stanza dalla statura imponente. «Era pieno di bambini, là dentro! Che opportunità hanno avuto?».
«Sono figli di inessenziali. Non possiamo lasciare allo sbando milioni di orfani».
«Bastardi!» gridò scaricando un montante sullo zigomo del colonnello. «Non dire un’altra parola. Mi fate schifo. Come abbiamo potuto ridurci così? Ora…».
Si spostò lungo il perimetro della stanza fino alla finestra. Mezzi militari attraversavano il campo visivo ogni venti-trenta secondi. Non c’era alcun suono, eccetto il fischio di motori elettrici e un’eco lontana di percussioni meccaniche. Sotto una tettoia, due militari giocavano a carte, i visi coperti da maschere antigas, mentre la breve notte subpolare già cedeva il passo all’aurora.
Si chiese come fosse il mondo oltre il filo spinato. Se laggiù nelle città, sulle spiagge, la gente fosse almeno felice, senza più lo spauracchio della tomba. Ma non c’era speranza di andarsene di lì per scoprirlo, e gli dispiacque. Era come aver viaggiato nel tempo con la faccia coperta da un cappuccio nero.
«Ora voglio sapere chi sono. Avrete pure un archivio di chi finisce nella fossa comune».
8
«Appoggia la mano sul trackpad, attiverà in automatico un sensore biometrico».
Si avvicinò al computer sulla scrivania e accostò un palmo al tracciatore tattile.
Anton Saponov Krialenko, riportava la didascalia sotto la foto di un uomo dal collo taurino, la testa rasata. Gli occhi erano a mandorla, ma l’iride verde-castano suggeriva ascendenze kirghise, o kazake. Il nome non gli diceva niente. Insegnante di fisica all’ORT Technology School di Mosca, proseguiva il file. Sposato con Katarina Ivanova, due figli…
Riusciva a ripescare numerosi frammenti di quella vita. Ma dopo quella, c’erano state altre vite. Aveva lavorato nell’industria automobilistica, poi in campo aero-spaziale, una seconda laurea in agronomia. Altre mogli, altri figli, quindi, inspiegabilmente, ventitré anni nel Mossad, i servizi segreti israeliani. Di quelle vite, però, non c’era traccia nella sua mente: una voragine, un baratro, senza un filo di ragno che le ricollegasse al presente. Un presente di abiezione e inganno.
Il frastuono di una sirena si levò all’esterno della baracca, mentre un triangolo rosso con al centro un punto esclamativo iniziò a lampeggiare sullo schermo.
«Che succede?».
«La fornace è piena, stanno per azionare i bruciatori. Tutto il personale deve portarsi al coperto».
Tornò alla finestra. Il via vai dei mezzi a motore si era fermato, mentre i soldati di guardia si affrettavano a trovare riparo. Poco dopo, i riflessi dorati delle fiamme che lambivano i lucernari dell’hangar inondarono il campo di una luce calda e tremula. Poi, una cenere bianca prese a coprire ogni cosa, solo per scomparire all’istante una volta posata, indistinguibile dalla neve.
«Quanto tempo durerà?».
«Il coprifuoco è di circa mezz’ora».
Si voltò verso la scrivania e posò lo sguardo su un tagliacarte. Con rapidità gli sfrecciò davanti agli occhi la sequenza di azioni che avrebbe compiuto: afferrato il tagliacarte, lo avrebbe conficcato sotto allo sterno del colonnello con un angolo di quindici gradi, provocandone la morte istantanea. Poi avrebbe raggiunto la scienziata, che si sarebbe accucciata in posizione difensiva. Ruotando la lama di piatto, gliel’avrebbe piantata nella schiena, fra le costole, offrendole una fine misericordiosa. Poi avrebbe attraversato il campo deserto e sarebbe fuggito. Ma come superare la recinzione? Senz’altro il posto era circondato da mura e filo spinato, e oltre a quelli, chilometri di steppa innevata. Immaginò un finale diverso: senza lasciare la baracca, avrebbe rivolto l’arma su se stesso, centrando l’hara, il punto d’onore dei samurai.
8
«Posso farti uscire di qui» balbettò il colonnello alle sue spalle. «So che stai pensando di fare, lo farei anch’io, ma non è necessario. Liberami. C’è una pista di decollo ai margini del campo. Nel cassetto a destra ci sono le chiavi del mio elicottero personale. Ti porterò fino a Tura, il capoluogo della regione. Da lì potrai prendere un treno per Novosibirsk».
«Chiamerai soccorsi appena usciti dalla porta, o una volta sbarcati a Tura!».
«Voglio solo vivere, te lo assicuro. La vedi quella porta grigia? Dietro c’è un ripostiglio dove troverai le tute e le maschere che indossiamo all’aperto. Nessuno ti riconoscerà. C’è anche una pistola. Potrai tenermela puntata finché non raggiungiamo l’eliporto. E una volta che ci saremo lasciati, perché dovrei denunciarti? Rischierei solo dei guai. Ufficialmente sei morto, non è accaduto nulla. Non lo verranno mai a sapere».
«Viene anche lei» disse Anton indicando la scienziata.
L’elicottero sorvolava distese di conifere innevate, finché entrò in vista di un lago a forma di ipsilon. Al centro dei due rami divergenti, si profilava un aggregato urbano spalmato a ridosso della riva.
«Siamo arrivati. Nascondetevi nel vano portabagagli sotto ai sedili. Richiederò un cambio del blocco batteria. Quando gli uomini del service si allontaneranno con la batteria scarica, potrete uscire».
«Ok, terrò il portello sollevato e la pistola puntata. Devi anche darci dei soldi per il treno e le prime necessità».
«Soldi?». Il colonnello rise. «Non ti serviranno. Ogni forma di pagamento è stata abolita dal 2090. La produzione di beni e servizi è interamente automatizzata, ognuno può spostarsi liberamente, prendere ciò di cui ha bisogno, e non ci sono distinzioni sociali su base economica».
«Non lavora più nessuno?».
9
«Tutti lavorano, per la Kono Pharmaceutics. E tutti fanno il loro dovere. L’efficacia del Demetrax dipende da una dose di richiamo ogni sei mesi. La somministrazione è gratuita, ma solo i cittadini collaborativi ne hanno diritto. Chi è segnalato salta un turno: ricomincia ad ammalarsi, vede marcire i denti e cadere i capelli… Entro un anno torna a rigare dritto. In cambio della longevità, ognuno contribuisce al benessere globale, con un posto assegnato fin dalla nascita. Ogni venticinque anni possiamo decidere se confermarlo o cambiare ruolo, in base alle necessità collettive».
«Sembra il mondo perfetto».
«Lo è. Povertà, violenza, ribellione insensata sono state eliminate. Esistono solo nei programmi scolastici».
«Sono state eliminate anche nove miliardi di persone. Come fate a nascondere la loro scomparsa? Nessuno li cerca?».
«Grazie al programma di colonizzazione. Ufficialmente, è in corso un insediamento di massa su Marte. Solo chi opera nello smaltimento sa che sul pianeta rosso ci sono poche centinaia di ricercatori. Quando un soggetto risulta incompatibile all’ultimo aggiornamento del Demetrax, si comunica alla famiglia che è stato arruolato nel programma. L’identità del defunto viene digitalizzata, in modo che i suoi cari possano restare in contatto col simulacro a tempo indefinito, e rimanere aggiornati sullo sviluppo degli insediamenti. Le simulazioni dell’habitat marziano sono molto persuasive. Tutto è organizzato nei minimi dettagli… Presto, infilatevi nella stiva, atterreremo fra pochi secondi».
«Change clothes» disse la giapponese appena usciti dal piccolo aeroporto, pizzicandosi un lembo della camicetta. I loro indumenti erano pesti e puzzavano di carogna. Il mal di testa si andava attenuando, bastava evitare di fissare il cielo, che sfavillava bianco-azzurro con un bagliore rosa lungo tutto l’orizzonte.
La donna lo guidò verso un veicolo elegante, a forma di uovo schiacciato, che si aprì su un fianco e li lasciò entrare, trasportandoli in pochi secondi verso il centro cittadino.
10
«Come ti chiami?» le chiese Anton una volta scesi.
«My name Sakura Kono. Yes» aggiunse interpretando il suo sguardo interdetto, «I am member of Kono family. In Japan, family very large». Sembrava esser tornata serena, senza traccia di rancore o rimorso. «Thank you for make me free» disse poi, inchinandosi quasi fino a terra. «Now I show you new world».
Entrarono in un emporio di abbigliamento, dove scelsero ciò che volevano e si cambiarono nei camerini, che disponevano di bidoni di riciclo, pronti a triturare gli abiti smessi di chi si serviva al negozio. Una commessa, intenta a disporre i nuovi arrivi sulle rastrelliere, gli sorrise cordialmente all’uscita. Quindi Sakura lo condusse in un hotel.
«Two loom, please» disse alla ragazza della reception. Anche lei sorrideva, calma e accogliente.
Dopo essersi lavati e riposati, si rincontrarono nel tardo pomeriggio. Anton volle camminare per le strade della cittadina. Si stupì di trovare, in quell’avamposto siberiano, scaffali colmi di frutta esotica, bottiglie di vino pregiato.
Si fermarono a un ristorante. I tavoli erano occupati da giovani coppie di innamorati, gruppi di amici che scherzavano allegri, genitori con figli adolescenti. C’era un piccolo palco con musica dal vivo, ordinarono gyoza di salmone e fritto di granchio reale.
«Che farai, una volta arrivati a Novosibirsk?».
«Go back to family house, in Kyoto. Hide there, forever. You?».
«Penso che andrò a Tel Aviv. Da quello che ho letto sul mio file, è l’ultimo posto dove ho vissuto. Dovrei anche avere una figlia, da quelle parti».
«No more Demetrax for us. Die soon» disse Sakura, facendosi malinconica.
«Già. Invecchieremo, mentre tutti intorno restano giovani. Ti dispiace?».
«Better life short, so shame also short».
Sdraiato al sole di Mezizim Beach, Anton sorseggiava un daiquiri accanto alla nuova moglie Jelena, tentando di leggere le definizioni di un cruciverba. Erano passati cinque anni, e da qualche mese aveva notato quell’irritante difficoltà a mettere a fuoco da vicino. Doveva provare a passare da qualche rigattiere a Gerusalemme Est, sperando di trovare un paio di occhiali della gradazione giusta, da usare poi con la massima discrezione, solo in casi di reale necessità.
11
Rientrato a Tel Aviv, era riuscito a contattare un ex-collega dei servizi, di cui aveva memorizzato nome e reparto dal suo file. Attraverso l’amico, si era procurato una nuova identità, ma l’inganno non sarebbe durato a lungo. Immerso nell’immutabilità di chiunque gli stesse accanto, il tempo sembrava passare più in fretta, in una sorta di moto relativo. A fronte di questo handicap, Anton provava una pena smisurata per gli abitanti di quel nuovo mondo e la loro ingenua spensieratezza.
«Che dici?» gli chiese Jelena stringendogli un braccio. «Ci manderanno alle vecchie colonie o saremo destinati alla nuova frontiera? Sembra ancora più elettrizzante».
«Dico che non c’è posto migliore che qui, e tempo migliore di adesso. Voglio godermi ogni secondo che passo con te, senza pensare al futuro».
«Il futuro è adesso. Ramat e Levi sono stati convocati la settimana scorsa. Sono nella nostra circoscrizione, presto chiameranno anche noi. Io non sto più nella pelle. Già mi vedo su quella luna lontana. Ti immagini? Ci sono altri otto satelliti visibili, che a turno attraversano il cielo». Jelena gli si era sdraiata sulla schiena e gli strusciava addosso il seno da ventenne, fissando l’orizzonte incantata. «Aurore multicolori si irradiano dai poli, prendendo luce dal gigante gassoso che occupa un quarto del firmamento…».
Da tre anni era partita la campagna di reclutamento per colonizzare una luna di Giove. Secondo i dati ufficiali, l’insediamento su Marte era quasi concluso, essendo il pianeta rosso prossimo alla saturazione.
«Ti sei mai chiesta perché nessuno viene avvisato in anticipo della convocazione?».
«Perché qualcuno potrebbe rifiutarsi, zuccone. Farsi prendere dalla paura e fuggire chissà dove».
«Oppure è tutta una montatura! L’ho visto coi miei occhi, Jelena. Quella luna è solo un sasso ghiacciato. Le navicelle spaziali sono vuote. Quando dicono che una persona è partita per le colonie, è perché ha assunto una dose letale…».
«Ancora con queste idiozie! Mi avevi promesso di farti curare le tue fissazioni. Spero almeno che non ne parli con nessun altro, o ci denunceranno entrambi alla polizia sanitaria».
12
Jelena si scostò contrariata, voltandosi a leggere dall’altra parte. Ogni volta che Anton aveva provato a parlarle del campo di smaltimento, si era scontrato con quella reazione furiosa. Era straziante dover mantenere il segreto, specie quando entrava in confidenza con un nuovo amico e avrebbe voluto disperatamente salvarlo. A parte Jelena, l’unica persona che aveva provato ad avvertire, due anni prima, era stata sua figlia, che lo aveva ingiuriato e minacciato mentre cercava di convincerla a sottrarsi all’ennesima iniezione di Demetrax, poi risultata fatale.
Guardò la piattaforma che svettava dieci chilometri al largo della costa. Da un proiettore alla base del traliccio, un gigantesco ologramma mostrava giorno e notte le meraviglie delle colonie interplanetarie. La sequenza di immagini si alternava a una scritta cubitale: GANIMEDE, THE NEW FRONTIER.
In quel momento, un’esplosione di carburante chimico squarciò la superficie delle acque, accompagnata da un rombo lontano. Tutti gli avventori della spiaggia si voltarono ad ammirarla con espressioni beate. Molti applaudirono, mentre il razzo si staccava lento dal mare, prendendo quota fino a ridursi a un punto luccicante, che svanì perforando la stratosfera.