DROPZONE

NOTA: questo racconto fa schifo. Lo ritengo uno dei peggiori che abbia mai scritto, e per altro è uno dei primi, più di tre anni fa. Non mi piace perché non significa un cazzo. Ho solo raccontato cose strane senza riuscire a trovare una chiave. Lo pubblico proprio perché me ne vergogno, e questo sito riguarda fare le cose male, sbagliare e superare l’imbarazzo che accompagna il processo.



La gente ci chiama ‘drogati di adrenalina’, ma l’adrenalina non piace proprio a nessuno.
Quello che ti sballa, è il flusso.
I fan credono che non abbiamo paura. È vero proprio il contrario: è la paura a salvarti la vita. E la paura fa schifo.

A volte ci metto più di un’ora a lanciarmi. Passeggio avanti e indietro intorno alla dropzone, oppure resto paralizzato in prossimità dell’abisso. Poi arriva un momento in cui nella testa mi resta solo una domanda: perché hai scelto di fare questa vita invece di cercarti un lavoro in ufficio, o riparare antichi strumenti musicali? So che sono sul punto di rinunciare, e se non salto in quel preciso momento non lo farò più, mai più.

Per i primi quattro secondi sei in caduta libera. In un istante senti lo stomaco svuotarsi e il cuore ti schizza al posto del cervello. L’accelerazione gonfia il nylon antistrappo della tuta alare: la caduta diventa volo.

Tutto cambia.

La paura si dissolve e lascia il posto a una calma sicura, uno stato di grazia in cui nulla ti può più toccare. Il flusso. Mentre sorvoli blocchi di granito e sfiori le cime degli alberi a 180 kmh, non c’è spazio per le preoccupazioni. Razionalmente, sai che potresti morire. La meraviglia di questo stato non è sentirsi invincibili, ma che tutto diventa relativo, anche la morte.
Lì, finalmente, ho il controllo.
Per tre minuti di planata estatica mi sento più sicuro che nel salotto di casa.
Ed è qui che nascono i problemi. Perché gradualmente, l’istinto di conservazione che nei primi voli ti tiene lontano dai rischi, si disperde sulla tua scia.
Vuoi sentire la terra vibrare volandole vicino, sempre più vicino.

Viaggiare diventa uno stile di vita. Per cinque anni sono stato ai vertici del volo di prossimità, battendo ogni record e corteggiato dagli sponsor.
Era la giornata perfetta. Dalla vetta di Table Mountain scrutavo il cielo blu cristallino insieme alla troupe della HBO.
Non appena mi allacciai il casco sentii il respiro accorciarsi, e l’ampiezza del paesaggio si restrinse a una lama di luce che mi accecava nonostante la visiera antiriflesso.
Come un presagio nefasto, mi balenò davanti agli occhi l’ultima foto scattata in volo assieme al mio amico Jeff Kelly, la sua tuta azzurra accanto alla mia gialla, morto sei mesi prima in uno schianto proprio lì a Table Mountain.
I primi sei lanci scivolarono come burro sul pane. Ogni traccia di turbamento era svanita e per il settimo e ultimo lancio, decisi osare di più e far bella figura con quelli della HBO.
Nessuno si era accorto che Vikka Peterson, che aveva volato appena prima di me, aveva urtato un palloncino di segnalazione, la cui fune si era impigliata bloccandolo a pochi centimetri da terra. In una frazione di secondo, mentre mettevo a fuoco il palloncino e mi dicevo che qualcosa non andava, sentii il piede sinistro sbattere su una piccola roccia. Acquistai velocità e persi quota, urtando il profilo di un masso a strapiombo con entrambe le cosce.
L’impatto mi fece volteggiare nel vuoto a 360°, togliendomi ogni riferimento spaziale mentre le ali si accartocciavano in una caduta verticale scomposta.
Ero sicuro che sarei morto, e non era il Valhalla dei coraggiosi quello in cui stavo precipitando, ma il buio di un’insulsa vergogna.

Per alcuni secondi rotolai nel vuoto in questa rassegnazione convulsa. Poi fui risvegliato da una folata d’aria calda dietro la schiena. Mi ribaltai e distesi le braccia e le gambe, sospinto verso l’alto da una corrente ascensionale.
Riuscii a planare ancora una ventina di metri, fino a scorgere una piccola radura dove sganciare il paracadute.
Le mie dita che tirano la cordicella sono l’ultima cosa che ricordo della prima parte della mia vita. Un istante dopo, quella stessa mano stava giocando con una ciocca di lunghi capelli biondi: i miei.

Mi trovavo in un negozio del centro. Un ampio spazio elegante,  con grandi specchi e rampe di scale. Non c’era niente di strano nel fatto che fosse un negozio di abbigliamento femminile. Ero lì per fare acquisti.
Lo dissi alla commessa: una bellezza mediterranea, piccola e in carne, i capelli nerissimi pettinati con cura. La sua risposta complice mi diede un fremito di piacere.
Provai una dozzina di vestiti, fra cui scelsi un paio di pantaloni aderenti color nocciola e una camicia di seta a fiori su fondo bianco.
Uscii in strada raggiante.

Ero vivo. Lo sguardo appannato stentava mettere a fuoco i ciuffi d’erba nei quali ero riverso. In bocca il sapore del sangue e della terra. Udivo i passi ovattati dei soccorritori in avvicinamento.
Discussero fra di loro, poi mi girarono a pancia in su. Due di loro mi reggevano per le spalle mentre un terzo squarciava la tuta. Lanciai un urlo così potente che riecheggiò in tutta la vallata, e solo allora tornai completamente in me.
Il primo impatto mi aveva polverizzato ogni osso del piede sinistro. Il secondo mi aveva causato fratture scomposte su entrambe i femori, e aveva divelto la rotula destra come il tappo di una bottiglia di birra.

La riabilitazione richiese più di nove mesi, e quattro interventi chirurgici. Ero seguito da uno staff d’eccellenza che monitorava i miei progressi con macchinari all’avanguardia.
Mi tenevo occupato. Non appena il dolore cominciò ad attenuarsi, Redbull mi assegnò una troupe per realizzare un docu-drama con cui promuovere il rientro in attività. Accettai al semplice scopo di distrarmi, di allontanare la visione del negozio di abbigliamento femminile che avevo impressa sulla retina come una filigrana che velava la realtà.
Al rientro avevo fatto di tutto per evitare Annika, la mia ragazza. Era convinta che non volessi esporla alla mia sofferenza fisica, ma ciò che mi tormentava era il dubbio di essere gay.
Decisi di superare l’ostacolo raccontandole della visione, e lei la prese molto meglio del previsto.
-Ti senti attratto dagli uomini? Mi chiese quasi divertita.
-Veramente no.
-Ti piacciono ancora le mie tette?
-Moltissimo.
-Allora non sei gay. O almeno non più della media. Concluse ridendo.
-Ok, mi solleva la tua reazione. Tuttavia non mi spiego il perché di questa fissa e ti assicuro che per me è una cosa seria.

Ogni giorno mi facevo mille domande. Forse quel pensiero era un invito a riflettere sull’insensatezza della mia vita? 
Mio padre era un addestratore della Marina Militare Britannica. Il suo compito era selezionare i migliori piloti top-gun per iniziarli al programma aerospaziale. Passava le giornate scrutinando gruppi di militari scelti,  di cui doveva scovare ogni difetto possibile, e quindi applicare un algoritmo differenziale per mapparne l’affidabilità in condizioni estreme. Dire che sono cresciuto sotto aspettative pressanti è un cazzo di eufemismo.
A sedici anni fui catapultato in un liceo della Florida, dove i miei coetanei sembravano giocare a un gioco di cui non conoscevo nemmeno il nome. Erano tutti così disinvolti. Sembrava che tutto ciò che gli importava fosse la loro musica, e trovare un lavoro abbastanza buono da pagarsi un’auto che facesse colpo sulle ragazze. Tutto il resto pareva scivolargli addosso.
A me no. Ogni gesto mi richiedeva un calcolo matematico; ogni frase che pronunciavo l’investimento emotivo di una scelta irrevocabile. Il mio aspetto fisico prestante non faceva che accentuare questa rigidità caratteriale, con effetti comici che alimentavano la mia insicurezza, alienandomi sempre di più dagli altri studenti.
Attraversai un periodo di profonda depressione. Qualunque cosa facessi era inutile: feste, droghe, incontri sessuali. Finivo sempre col sentirmi intrappolato in una gabbia di cristallo oltre la quale tutti stavano vivendo, tranne me. L’unica cosa che mi dava sensazioni piacevoli, scoprii, era prendere dei rischi.
Tornando a casa prima del College, venni a sapere che la mia famiglia perfetta nascondeva i propri scheletri: una storia di dipendenze, abusi e suicidi. E a quel punto formulai il mio piano: avrei sfidato gli oceani e le montagne finché non fossi riuscito a spezzare le mie catene o spezzarmi l’osso del collo. E onestamente, non mi importava molto quale dei due finali avrebbe avuto la storia.

-Perché non la fai finita e vai in quel cazzo di negozio a comprarti un tanga e un paio di collant?
Mi chiese Annika intorno al sesto mese di riabilitazione. Le cicatrici degli interventi erano quasi rimarginate, e il tono muscolare ridotto era il principale ostacolo a camminare senza stampelle.
-Perché mi sembra un’idiozia colossale, Annika. Una bravata, niente di più. Cosa avrei risolto? Cos’avrei risolto a sputtanarmi davanti all’umanità facendo una cosa che non ha alcun senso per nessuno, che non farà che coprirmi di ridicolo come quando ero al liceo. Lo sai come mi sentivo, e questa volta non ci sarebbe modo, davvero, di tornare indietro.
-Te le compro io? Shopping online?
-Ci ho già pensato. Non mi darebbe la minima soddisfazione.
-Allora hai solo paura.

Paura, certo.
Mi immaginavo la scena in cui camminavo per le strade indossando indumenti simili a quelli della visione, con tanto di stampelle, e qualcuno mi riconosceva e mi riprendeva segretamente. Immaginavo  il post virale che ne sarebbe seguito, i commenti.
Negli ultimi due mesi, in cui ricominciai ad allenarmi seriamente in palestra e iniziai la preparazione per i nuovi lanci, la visione dello shopping proibito scomparve. 
Ero molto impegnato con la campagna promozionale, e a studiare gli aspetti tecnici del volo.
Non avevo paura. Praticavo molti esercizi mentali di focalizzazione che favoriscono uno stato di calma.

Poi arrivò il giorno del rientro in scena. Eravamo a Sydney da una settimana per l’inaugurazione della dropzone di Katoomba, la prima nello spettacolare scenario delle Blue Mountains. Ogni giorno visitavamo la zona per sopralluoghi e rilievi. Non mi sentivo spaventato, solo strano. Dedicavo un tempo insolitamente lungo a studiare i grafici altimetrici, a volte svegliandomi di notte per controllare un dettaglio. La sera prima del lancio, mi allontanai dall’Hotel per vagare da solo nelle strade del centro. La partenza era alle quattro del mattino e cominciavo a sentirmi già stanco, era ora di rientrare.
Suonò la notifica dei messaggi. Era Annika:
>Hey. Tutto bene? Chiamami dopo se hai un minuto. Devo dirti una cosa.
Alzai lo sguardo per ponderare la risposta e mi vidi riflesso in una vetrina. Restai di ghiaccio accorgendomi solo allora che i miei capelli erano cresciuti proprio come nella visione. 
Era una vetrina di Zara. Niente a che vedere con l’emporio di lusso della mia fantasia. La commessa era bionda e si muoveva a scatti. Ripiegava distrattamente un maglione, come scontenta della giornata.
Di nuovo, un’immagine estranea velò il mio sguardo. Mi vedevo sulla dropzone, l’indomani, come fossi lì, e non stavo affatto bene. Sudavo freddo, avevo la nausea, brividi incontrollabili. Allora capii.
Per qualche motivo a me incomprensibile, quei due momenti erano collegati: se fossi entrato e avessi chiesto di provare degli abiti da donna, il giorno dopo sarei riuscito a saltare e proseguire la mia carriera. Se non l’avessi fatto, sarebbe accaduto qualcosa di catastrofico.
Ma più me ne convincevo, più l’idea di varcare la soglia mi terrorizzava.
Rimasi davanti all’ingresso un tempo che sembrò infinito. Poi vidi la commessa sparire nel retro, e poco dopo si spensero alcune luci. Controllai l’orario di chiusura sulla porta del negozio: mancavano solo sette minuti.
Le ragazze degli altri reparti iniziavano a radunarsi intorno alle casse; nessuna di loro somigliava alla mia brunetta. Poi cominciarono a uscire, una dopo l’altra, finché non rimase che la bionda che finì di chiuder cassa e spense le ultime luci, dirigendosi verso l’uscita.
-Posso aiutarla in qualche cosa?
Mi chiese vedendomi lì impalato, alzando di proposito la voce per richiamare l’attenzione delle colleghe, che si attardavano a poca distanza.
-Non c’è problema, volevo comprare un regalo. Ripasserò domani.

Una brezza leggera mi accarezzava il viso, così piacevole che non riuscivo a decidermi a mettere il casco. La troupe attendeva il segnale per avviare le videocamere ad alta definizione.

Stavo per allontanarmi ed eccola, scende le scale del negozio: è lei, la ragazza della mia visione. Potrebbe essere italiana, a guardarla dal vivo. È la shop manager; ho un’ultima chance.
Entro nel negozio in penombra, e mi avvicino al bancone principale. La ragazza mi guarda con aria interrogativa, ma non smette di sorridere.
-Ciao. - Le dico - scusa il disturbo, vedo che state chiudendo. Vorrei chiederti una cosa. Ho questa fantasia di comprare dei vestiti da donna. Pensi che sia strano?
-Qui vengono tanti ragazzi. - Mi risponde facendosi un po’ più seria, ma senza scomporsi.
-Ma io non sono gay, vedi. È questo che non mi torna.
-Penso sia più comune di quello che credi. Senti, siamo in chiusura come vedi. Puoi tornare domani se vuoi, vieni da me. Intanto, perché non cominci con qualcosa di semplice? Credo che questi ti starebbero bene.
Mi mostra un paio di occhiali da sole con grandi lenti sfumate e le stanghette incastonate di finti brillanti.
-Li prendo. Quanto costano?
-15.99, ma puoi pagarmeli domani, abbiamo chiuso le casse.

Con due pollici alzati segnalo ai cameraman di avviare le riprese. Sorrido. Oggi non sono in agonia come al solito. Non ho troppe domande per la testa. Mi sento tutt’uno col paesaggio mozzafiato che mi avvolge, stringendomi in un’abbraccio. Mi lancio per volare alto. Ho capito: non dev’essere tutto bianco o nero. So che dopo questo volo non sarò più il numero uno. Magari fra un anno sarò il numero dieci, e sarà tempo di chiudere questo capitolo della mia vita e iniziare una nuova avventura. Sto galleggiando su un cuscino d’aria, guidato delle forze primordiali dell’universo; un’esperienza indescrivibile, che può capire solo chi la prova. E me la voglio godere ogni secondo della mia vita. Ho capito. Ora sono nel flusso.