ANGELO

Quel cazzo di gelso che sta in mezzo alla vigna, ispettore, quella pianta di merda è stata la causa di tutto.
Uno stupido gelso decrepito, martoriato dai fulmini, pieno di  buchi e bozzi nodosi, avrei dovuto abbatterlo vent’anni fa.

Quand’ero ragazzo la vigna era il terreno migliore, l’orgoglio di babbo. Ventidue filari piantati di traverso a un poggio assolato, sempre in ordine e senza uno sterpo, la peronospora non si sapeva cos’era. A noi citti era vietato metterci piede, se non per aiutare nella vendemmia.
Il campo era per metà del babbo e per metà di zio Santino, e questo è stato il motivo per cui poi è andato tutto in malora. Ma a quei tempi era tenuto a puntino come tutta la campagna attorno, uno splendore. A vendemmiare ci si trovava in sei famiglie: mamma, zia Fernanda e gli altri zii, mio fratello e mia sorella e coi cugini che saremo stati una trentina. Nonno Dante arrivava col carretto e dopo cinque minuti neanche ripartiva stracolmo di uve da scaricare nei tini che stavano di lato alla legnaia.
Quando sono arrivati gli egiziani, tre anni fa, la bella vigna era ridotta a un ritaglio di macchia soffocata da pruni e forasacco. Ma loro han detto che la volevano coltivare, e per trecento euro al mese gli ho affittato anche il poderino che per miracolo aveva ancora il tetto.
Sappiamo far crescere il grano anche nel deserto, han detto. Però appena han cominciato a tagliare i rovi, è arrivata la forestale che li ha bloccati minacciando multe salate. Il campo adesso è adibito a rigenerazione bioenergetica, han detto, o qualcosa del genere. Io gli ho fatto notare che dalle mappe catastali la particella era segnata come agricola, ma secondo loro questo ormai non contava perché le foto aeree valevano più delle mappe, che non son mai aggiornate, e adesso i pruni eran pieni di nidi di cinciarelle e le api dovevano pur prendere il nettare da qualche fiore selvatico visto che stanno scomparendo.
Così gli egiziani che nel frattempo avevano iscritto i figli a scuola e avevano passato l’estate a raccattare coppi e legni per mettere in sicurezza quella baracca cadente del poderino, si son trovati per dirla in modo franco col culo per terra. Però erano intraprendenti, due famiglie per un totale di dodici, due fratelli con rispettive mogli e quattro figli a testa. Mi dispiaceva parecchio, soprattutto pe’ ragazzi, la più grande aveva tredici anni e iniziava la seconda media.

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Ma loro non è che han detto che paese di merda, qui non si può fare un cazzo che arriva lo Stato e ti mette i bastoni fra le ruote, come avrebbe fatto qualunque italiano. No, la legge si deve rispettare, han detto. Si sono messi a girare le valli sul furgone con cui erano arrivati da Foggia, un Transit che minimo era degli anni ottanta, e hanno passato settembre a fare i braccianti qua e là, a svuotar fondi e scavar fossi e chissà cosa. Si da che arrivati a fine mese non avevano mai fatto saltare un pasto ai bambini e si son comprati un mezzo più moderno, uno di quegli aggeggi furgonati colle ruote d’un trattorino. Non era nuovo ma se non altro non c’aveva la ruggine, e il motore sta certo che se si guastava lo riaggiustavan da sé.

Livio, m’ha detto Farid, il fratello maggiore, al trenta di settembre. Ricordo che era il trenta settembre perché al trentuno di agosto termina il divieto di abbruciamento residui vegetali, e così da lì in poi passo a farlo ogni ultimo del mese. E proprio quello stavo facendo, era l’imbrunire. Vedo Farid arrivare, io sto poco più su di loro, il poderino è in vista ma è arrivato con l’auto, c’aveva uno dei figli dietro sul cassone.
Nel moro al centro del campo c’è un nido di calabroni, m’ha detto. S’intende il gelso, qui li chiamiamo mori perché gettan le more più grandi e gustose del mondo anche se durano solo una settimana. Di notte ci entrano in casa attirati dalle luci e ieri sera uno ha punto Haimen, guarda, ha continuato, dicendo al ragazzo di smontare e cavarsi il calzino per mostrare la bozza sul polpaccio che pareva un vulcano, rosso di lava incandescente col buco al centro nero dov’era entrato il pungiglione. Dobbiamo cavarlo di lì.
Ehmbé, gli faccio. Quelli con lo spray crepano in pochi minuti, gli ho detto, dov’è il problema? Ero sorpreso perché questi mica son fessi, vengono da un paese dove ci stanno gli scorpioni giganti, e mi vengono a chiedere aiuto a me per un nido di busaloni? che poi anche fosse, passata la metà di ottobre crepano da sé per il freddo. Intanto bisogna medicare il ragazzo, gli ho detto, che quella bozza mi da che sia purulenta, non c’avete messo niente?
Ha detto che c’hanno messo il Gentalyn, ma il ragazzo ha il sangue sciapo come la madre, guarisce lento. Ma il problema è che questi non son calabroni normali, son quelli asiatici, più grossi e più cattivi, e il nido andava subito cavato di lì.

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Quindi? Gli faccio. Devo venir giù io? Vuoi che ti compro lo spray o che vengo giù io abbruciarcelo? Farid, è questo?
Farid non parlava italiano proprio preciso. Cioè, si esprimeva, ma non si capiva bene quanto capisse. Ogni tanto ti guardava a lungo prima di rispondere, e poi ti diceva qualcosa che non era quello che ti aspettavi.
In ogni caso, mi ha risposto di no. Ha detto che non voleva sterminare i calabroni con lo spray. Ha detto che voleva spostare il nido di lì e portarlo su in collina per allevarceli, quegli inzetti merdosi, che aveva individuato un buon posto isolato fuori dalla cosiddetta vigna che gli ho affittato, ma sempre mio.
Sei matto, gli ho detto. Quelle bestie sono una calamità e te le vuoi allevare? Guarda che ha fatto a tuo figlio una sola puntura, se ti attacca uno sciame sei morto, per non parlare dei danni che fanno alle piante, quando puntano un susino se lo ciucciano in mezza giornata e ti lasciano gli ossi. Si potesse sterminare ogni singolo esemplare dalla terra, si farebbe un gran favore all’umanità. Per che boia di motivo vuoi allevare dei merdosi calabroni in casa mia?
Per mangiarli, mi dice.
Gli ho piantato una faccia come per dire, se avessi in mano un fucile a pallettoni, ti riempirei io di buchi, altro che i mozzichi dei calabroni che te ti vuoi mangiare.
No, aspetta, Livio, guarda video, guarda video, ha preso a dirmi sventolando il telefonino.
M’ha spiegato che gli è venuta l’idea guardando un video su YouTube, mentre cercava informazioni su come medicare la puntura di Haimen, la sera prima, dopo che era stato morso. Così ha scoperto che c’è un villaggio del Vietnam dove la gente vive allevando busaloni, che pare vadano a ruba in tutta l’Asia, soprattutto in Cina. Ha detto ti mando il link su whatsapp, così poi lo guardi. Ci facciamo un sacco di soldi. Quegli schifosi cinesi si mangiano le larve vive, e qui in Italia è pieno di schifosi cinesi, ci ho anche lavorato. Son convinti che fanno bene al cazzo, cazzo duro, ha detto facendo il gesto dell’ombrello col pugno chiuso e il braccio teso in aria. E dove vanno a prendersi le loro larve fresche? Non possono mica importarle dal Vietnam. Gliele vendiamo noi a ottanta euro al chilo, ha detto, un nido allevato bene può arrivare a contenere una tonnellata di larve.

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In settimana sono arrivate due giornate di gelo che pareva l’inverno. Così, dal caldo africano, ai primi d’ottobre in ventiquattrore sembrava di stare in Finlandia.
Adesso è momento buono, corre su Farid sbracciandosi. Calabroni adulti tutti morti, solo regina viva al centro di nido. Tu aiuti me a spostare che Tariq ha paura. Tariq era il fratello minore, ovviamente, un ragazzo molto magro e nervoso che pareva ti guardasse sempre di traverso.
Pure io, non è che fossi esattamente sereno.
Dobbiamo mettere le protezioni da apicultore, ho detto. Con i cappucci retati.
Non serve, senti, non si muove niente, nessun rumore, mi dice avvicinando un orecchio alla pianta. Aveva portato con sé un’ascia e una vecchia coperta di lana, di quelle che si usano per imballare i mobili nei traslochi.
Tu tieni coperta qui sotto, mi istruisce passandomela. Io spacco corteccia per liberare nido. I calabroni entrano da qui, io ho visti, dice indicando un nodo forato a metà del tronco.
Cinque o sei colpi secchi d’ascia intorno a quel punto e il gelso comincia a cedere. Lo strato esterno era molto indurito ma dentro era marcio. Con la mano libera stacca grosse schegge finché compare qualcosa che somiglia a cartone grigiastro.
Eccolo, dice. Butta l’ascia e con due mani tira forte sui lati dello squarcio finché il nido grande quanto una testa di bue è completamente scoperto. Dobbiamo portarlo via tutto, se regina prende freddo muore.
Com’è che sei così informato?
Trovato tutto su internet, mi dice.
Si allontana e torna con un piede di porco lungo così, lo infila dietro alla torre di cartone e fa leva per ribaltarla fuori dalla nicchia.
Teni coperta tesa! Teni forte Livio!
Il nido atterra sulla coperta e rischia di cadere a terra, peserà una diecina di chili, me l’aspettavo più leggero. Occhio Livio! grida Farid dalla scala. Appoggia piano! aspetta che scendo e ti aiuto.
Insieme adagiamo la coperta al suolo e ispezioniamo l’oggetto che ha la forma d’un cilindro deforme, come due palloni schiacciati insieme.
Sei sicuro che non sia abbandonato? a me pare tutto secco.

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No, guarda qui. Farid indica la base della torre che è ricoperta di una sostanza nera e vischiosa come la pece. Lo tocca con un ramoscello che poi stacca a fatica portandosi dietro filamenti di bava densa.
Dio, che schifo. Impacchettiamolo prima che strisci fuori qualcosa e poi facci quel che ti pare, gli dico.
Con cura avvolgiamo i lembi della coperta intorno al nido e fissiamo una corda che gli abbiamo avvolto intorno.

Non ho più saputo niente fino all’estate. I fratelli hanno continuato a occuparsi di trasporti per tutto l’anno. La vigna non l’hanno più toccata. Nel frattempo la figlia di Farid era diventata una grande fica. Le erano spuntate due tette giganti e aveva sempre indosso un paio di pantaloncini strappati che non mi sembravano proprio in linea col Ramadam. Sembrava quella che aveva incastrato Berlusconi, ha presente? Ruby Rubacuori, uguale spiccicata.
È il tredici agosto e ci sono quarantatré gradi all’ombra. Farid viene su e dice che è il momento di raccogliere le larve. Ha già un accordo coi ristoratori cinesi. Non ottanta euro al chilo ma diciotto. È tanto lo stesso. Se lo aiuto si divide in tre, io, lui e Tariq.
Com’è che tuo fratello ha cambiato idea?
Abbiamo comprato le protezioni. Da un baule sul cassone del camion tira fuori una tuta di gomma arancione tipo palombaro con tanto di maschera in vetro e respiratore.
Non vorrai farmi indossare quella cosa? Moriremo di caldo!
Tanti soldi, Livio.
Si, bisogna vedere se nel nido c’è una tonnellata di larve come dici tu. A me sembra esagerato.
Hai visto video?
No.

La sera guardo ‘sti vietnamiti che si inerpicano per un sentiero nella giungla fino a un terrazzamento in mezzo alle palme, saranno una ventina a dissotterrare questo mostro appiccicato a un telaio di bambù. Quando lo girano a pancia in su sciàmano fuori un miliardo di inzetti furibondi che infestano l’aria attaccando ogni cosa che gli capita a suon di mozzichi e speroni avvelenati.

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Non sarai mica così scemo Livio, mi dico, da metterti in questo guaio. Guarda che ci rimetti la pelle. Però se è vero che come dice Farid ‘sti cinesi pagano quello che pagano, sono sessantamila a testa, per di più in nero perché è tutto illegale.
Il video è parlato in inglese e non ci capisco una fava. Però nel titolo c’è la parola ‘delicacy’ che mi ha incuriosito e ho cercato la traduzione. Significa prelibatezza. Quindi Farid ha ragione, le larve viscide che si torcono ancora nel piatto per questi schifi di cinesi sono più bone del tartufo e del caviale. Ma in che schifo di mondo mi son trovato a invecchiare? Dio buono una vera merda di mondo. Se ci fosse il mi poro nonno ancora vivo, mi dico, che penserebbe? E lì mi viene in mente che coi sessanta mila la rimetto in sesto io la vigna, altro che. Mi ci faccio il mi vino e se del vino non gliene importa più un fico a nessuno perché son meglio li vespi, me lo bevo tutto io finché moro.

Arrivo giù al poderino verso le otto di sera, come m’ha indicato Farid, che gl’inzetti a quell’ora sono più calmi ma c’è ancora luce. Dobbiamo partire assieme da lì, perché l’allevamento è in un posto segreto che gli egiziani non han mostrato a nessuno. La figlia è seduta a un tavolo sotto al pergolato col cellulare, coi soliti pantaloncini strappati. Ha un nome che fa proprio ridere, Mona, che in egiziano non so che cazzo significhi ma su al nord significa proprio fica, che le starebbe a pennello se non fosse che mette imbarazzo. Beve un tè freddo con la cannuccia e mi guarda. Anche io la guardo e le dico ciao, togliendomi il cappello. Vado a chiamare papà, mi dice.

Dobbiamo mettere tute ora, dice Farid, prima di salire in auto, così parcheggiamo vicino a nido che pesa troppo. Siamo davanti al poderino e Mona, Haimen e gli altri bambini e le mogli sono usciti tutti e ci guardano infilarci gli scafandri da sotto al pergolato, sfottendoci in egiziano. Tariq si veste senza parlare col solito sorrisetto scemo. Non dice mai una parola e ha sempre un mezzo sorriso e la bocca che schiuma agli angoli come impastata. Non dico che sia idiota ma di certo è parecchio più lento del fratello.

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Dopo due curve il sentiero si chiude, nessuno l’ha ripulito da trent’anni, ma noi proseguiamo nella ricrescita strisciando le portiere sulle acacie e schiacciando i cespugli di more sotto le ruote.
Domani si compra auto nuova! mi tranquillizza Farid. Arriviamo quasi in vetta al colle, in uno spiazzo assolato ma protetto da una cortina di castagni. Farid l’ha spianato l’anno scorso quando c’ha impiantato il nido con la regina. Non si vede nulla, a parte quattro assi stesi a terra che affiorano dalle foglie secche.
L’hai fatto preciso a quello dei vietnamiti, gli dico.
Si, uguale, solo telaio diverso perché non ho trovato bambù. Ho usato pali di abete. Ho scavato fossa di un metro e mezzo per tre, io da solo.
Ecco, infatti, come si fa noi tre a sollevarlo e far tutto il lavoro? Nel video erano in tanti.
Il nostro non è grosso come quello. Ai tropici crescono di più, almeno il doppio.
Sarà, dico sentendo alle spalle un ronzio cupo, mi giro e non c’è nulla, non capisco da dove provenga. Guardo a terra e dalle fessure fra gli assi vedo sbucare tre busaloni grossi come rocchi, che subito si levano in volo innervositi dalle voci. Non sarà ora di tappare le tute? Chiedo allarmato, e neanche finita la frase sento Farid gridare: indietro, indietro! Sventola i guanti per scacciare un vespo che sta per infilarsi dentro la tuta di Tariq passando per l’apertura sul collo.
Tariq corre terrorizzato dentro al furgone e noi dietro.
Ci infiliamo i cappucci con le maschere e i respiratori. C’è anche una ventola a batteria per il raffreddamento all’altezza del petto. Pure con quella è come fare la sauna, ma almeno si spannano le lenti. Per ultimo ci infiliamo dei guanti di gomma spessi mezzo centimetro che sigilliamo alle maniche con tre giri di nastro americano.
Pronti? Cominciamo! dice Farid al culmine della contentezza, come s’andasse a una festa.
Tariq è bianco cadaverico, scende dal furgone tremante.

Camminando m’accorgo che lo scafandro è troppo corto per la mia stazza, il cappuccio mi s’incolla alla pelata e tira su tutto il corpo fino alle caviglie.
Speriamo che tenga, dico a Farid tastando le cerniere.

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Senno so’ cazzi, risponde lui che continua a sganasciarsi dalle risate. In un anno il suo italiano è migliorato parecchio, articoli a parte parla meglio di tanti dei nostri.
Io prendo di qui, continua afferrando i due pali. Tariq prende dall’altra parte, e te Livio che sei pià forte sollevi di lato. Prima lo solleviamo di poco, solo per staccarlo da terra.
Al tre cominciamo a issare ma si fa una fatica immane. Il nido è sepolto a testa in giù, appiccicato agli assi di legno. Non peserà una tonnellata ma tre quintali tutti. Sotto quel peso poi i pali son sprofondati e non si riesce a impugnarli bene. Scaviamo un po’ intorno e issiamo di nuovo, e questa volta l’arnese si solleva di una spanna.
Dopo manco due secondi da sotto terra esplode una nuvola di inzetti. Son tanti che si fatica a vedere, impazziti. Il rumore è assordante e mi si rizzano tutti i peli che ho in corpo, sembra di stare in un tifone. Mi guardo una mano che è coperta di vespi che cercano di bucare la gomma ma non ce la fanno nemmeno a scalfirla. La tuta tiene bene.
Adesso tiriamo su più forte solo da un lato e lo voltiamo! grida Farid nella tempesta.
Mi sento schioppare i polmoni dallo sforzo ma una volta portato il telaio in verticale, è fatta. Il nido casca di lato alla buca con un tonfo e quasi non credo ai mi occhi. Sotto è come una città, ma non come le nostre, molto più bella e ordinata. Si vede la testa delle larve, bianca, spuntare dalle cellette nere. E non sono disposte a casaccio, no, formano dei cerchi perfetti, concentrici, e i cerchi s’incastrano uno nell’altro formando disegni geometrici, arabeschi d’un esattezza impressionante.
Per un momento non sento più nulla, pure il ronzio bestiale è sparito. Sono intontito da quelle trame e mi chiedo se magari non intendiamo tutto al rovescio, se quei busaloni che ci sembrano aggeggi ottusi non siano più intelligenti di noi. Magari un’intelligenza aliena atterrata qui chissà quando, prima de’ dinosauri.

Farid mi da uno scossone per farmi uscire dall’intontimento. Non c’è tempo da perdere, va bene le protezioni ma non è il caso di correre rischi. Ora che ho visto che sanno fare ‘sti alieni mi caco addosso ancora di più, e noi gli vogliamo rubà tutti i figli, te credo che sono incazzati.
Farid piglia un machete e con quello si mette a segare lo strato più esterno del nido, quello che contiene le larve. Mano a mano che i blocchi si staccano io e Tariq li portiamo al furgone ch’è lì a pochi metri, e li infiliamo dentro a casse di polistirolo col coperchio come quelle del pesce fresco.

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Faremo trenta, quaranta viaggi a testa e alla fine gli scatoloni son pieni, e del nido resta solo la parte attaccata agli assi di legno. Chiudiamo i coperchi e torniamo alla buca, esausti.
Adesso rimettiamolo a posto, dice Farid, così si rigenera e l’estate prossima abbiamo un altro raccolto.
Nel mezzo della manovra, miseria infame, a Tariq non gli si sbriciola mica un palo fra le mani? Quel legno che è stato sdraiato sul terriccio umido per nove mesi, a pigliare il sole e la pioggia, s’è indebolito. Peccato che Farid, che sta in avanti per centrare il telaio nella buca, non s’accorge per tempo di quel ch’è successo e il palo rotto e puntuto si conficca nello stinco al fratello, squartando la tuta. Questo caccia un urlo tremendo, s’accuccia per chiudere i lembi dello squarcio ma lo scafandro gli blocca i movimenti. Una matassa di calabroni s’accalca in mezzo secondo sulla gamba di Tariq, forse perché odorano il sangue, forse perché son così intelligenti che han capito che di lì si può entrare. I primi che arrivano chiamano gli altri che li raggiungono in picchiata. Pure io faccio per chinarmi sulla gamba ma non la vedo manco più, è come inghiottita dai busaloni. Mettici che Tariq grida e si dimena dal dolore e non lo si riesce a tenere fermo. Passano dieci, quindici secondi al massimo e già vedo gli inzetti che camminano sulla faccia di ‘sto poraccio dietro la maschera, ne devono essere entrati a decine.

Io e Farid prendiamo il fratello di peso e lo carichiamo sul cassone. Entriamo nella cabina e ci lanciamo giù per i boschi all’impazzata. Pure lì dentro dobbiamo tenere le maschere perché una ventina di ‘sti mostri si sono infilati dai finestrini. Le lenti si sono appannate e non si vede più un cazzo a parte che intanto s’è fatto buio e più volte rischiamo di finire fuori strada o schiantarci contro un cerro. Non so come, arriviamo alla provinciale e Farid dà tutto gas per spazzar via i calabroni attaccati al cassone, mentre io scaccio quelli nella cabina e li pesto sul cruscotto. E so’ coriacei, non morono manco coi pugni. Facciamo cinque, dieci chilometri finché Farid svolta nel vialetto della Collacem, che c’ha il cancello aperto sempre per far entrare l’operai che fanno il turno di notte. Ci si ferma nel parcheggio buio, in un angolo, ci sono solo tre macchine e non si vede nessuno.

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Scendiamo senz’ancora scappucciarci e tiriamo Tariq giù dal cassone. Non si muove. Con un paio di cesoie Farid taglia la tuta del fratello e ne volano fuori una fiumana di cosi che ci ronzano intorno e poi si disperdono. Dio buono quel rumore ce l’ho ancora negli orecchi, con la faccia stravolta di Tariq tutta piena di bozzi. È svenuto ma respira. Lo carichiamo sul sedile posteriore e Farid getta la tuta a brandelli in un cassonetto.
Tu non parlare, non dire niente o ci arrestano tutti, continua a ripetere Farid al fratello agonizzante. Pare che non capisca che quello manco lo sente, è in fin di vita, e si preoccupa solo che non ci scoprano.
Quando arriviamo al pronto soccorso Tariq è gonfio come una camera d’aria, non respira più, è chiaramente spacciato ma lo tiriamo dentro a spalla finché gli infermieri ci corrono incontro, lo caricano sulla lettiga e lo spingono via per un corridoio.
Aspettiamo fuori sopra il furgone per essere certi che nessuno si avvicini. Sul cassone ci sono ancora le scatole piene di larve e gli scafandri che ci siamo levati prima d’entrare all’ospedale.
Raccontiamogli che Tariq era andato a far legna, mi dice Farid che fuma e parla come una macchinetta, ripetendo le stesse frasi dieci volte. Tu eri venuto da noi per l’affitto, e in quel momento Tariq ha chiamato al cellulare chiedendo aiuto, perché era inseguito dai calabroni. Siamo corsi nel posto che ci ha detto e lo abbiamo trovato così…
Dopo due ore esce il medico con la classica faccia del “non c’è stato niente da fare”, sul corpo hanno contato novantaquattro punture. Gli fanno firmare dei fogli a Farid, per identificare la salma, l’orario d’arrivo al pronto soccorso. Stiamo per andarcene, saran le tre del mattino, che arriva un brigadiere e ci tiene lì un’altra ora per farci deporre entrambi. Naturalmente ripeto la storia che s’è concordata con Farid, che dovevo fare?

Passan tre giorni, no quattro, era di giovedì perché stavo guardando Del Debbio. Sento suonare la porta ed è Farid con in mano una busta della spesa. Dentro ci son dodicimila euro.
È un terzo dell’incasso, dice. La parte di Tariq l’ho data a sua moglie.
Io m’intasco la busta a capo chino.
Mi dispiace per Tariq, gli dico. Si doveva esser qui assieme a festeggiare.

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Farid mi risponde qualcosa in egiziano con dentro la parola Allah.
Siamo nelle mani di Allah, penso voglia dire. Non sembra troppo disperato. Mi viene anche da pensare che quella mezza carriola del fratello non gli era mai veramente andato a genio.
Sabato c’è il funerale, mi dice. Che fai vieni?
Maremma, rispondo, come no. Dov’è?
Abbiamo trovato un imam a Sinalunga. È il più vicino qui in zona.

La cerimonia è un po’ diversa dalle nostre, son tutti bardati con palandrani bianchi fino ai piedi. La predica è in arabo e l’imam canta dei versi del Corano che hanno un bel suono dolce dolce, molto commuovente. Per il resto è un funerale. La moglie e i figli di Tariq piangono intorno alla bara chiusa.
Finite le orazioni Farid mi prende da parte e attacca un discorso sottovoce, serio come non mai. Non mi ricordo le parole precise ma in sostanza mi parla a lungo della moglie di Tariq, Amina, che era una bravissima moglie, e ora che è vedova non sta bene che resti nella casa dove vivono anche il cognato e i nipoti maschi che stanno crescendo, non è onorevole. Dovrebbe tornare in Egitto portando con sé i figli suoi che ormai vanno a scuola qua, sono felici. Mi fa intendere che vuole che la sposi, io. Naturalmente, dovrei convertirmi all’Islam.
Ma son vecchio, gli dico. Ho sessantatré anni, lei ne avrà quaranta al massimo.
Farid m’assicura che per loro non importa. Quello che conta è che mi faccia circoncidere e smetta di mangiare il maiale.

La circoncisione me la figuravo peggio.
Siamo andati dallo stesso imam a Sinalunga che prima di mozzamme il prepuzio m’ha addormentato la fava con una puntura. Quando ha tagliato mi son girato dall’altra parte, e aveva già finito. Per un paio di settimane ho sentito bruciore specie mentre pisciavo, ma nel giro d’un mese e mezzo s’era rimarginato e mi son ritrovato co’ ‘na fava come nova, co’ ‘sta cappella sempre scappucciata che splendeva come la Sistina.
Non vedevo l’ora d’usalla.

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Amina è una donna piuttosto rotonda e porta gli occhiali, con due baffetti neri in cima alle labbra. L’avevo sempre vista col velo stretto intorno alla faccia, come lo portano certe di loro, che le strizzava fuori le guance. Non mi garbava mica tanto.
Però dopo il matrimonio siamo entrati in casa e se l’è tolto. M’è apparsa in camera da letto coi capelli neri sciolti e un vestaglione morbido, e non mi pareva affatto male. S’è seduta sul letto e s’è tirata su la veste scoprendo le cosce, e me so’ subito infoiato. Io di mio, è chiaro che non sono un regazzino, però la prostata è sotto controllo e tiramme me tira. Ecco la differenza è che se prima la voglia ce l’avevo sempre, adesso mi viene in un lampo, tutto d’un botto. Me so’ avvinghiato a lei che non mi pareva vero, dopo tutti ‘sti anni, poi manco la conosco.
Ecco ‘ste musulmane io me le figuravo più ritrose, per come si atteggiano in in pubblico, peggio delle nostre. Invece in privato son tutto il contrario. I primi tempi l’Amina mi cercava sempre, giorno e notte, come se pure lei non lo facesse da anni. Poi col tempo un po’ meno, ma il grillo non l’è mai passato.
Ma per davvero ti piaccio? le chiedevo io. Perché?
Perché sei alto, mi diceva lei. Ho sempre voluto uomo alto.
Io naturalmente m’ero stabilito lì, nella metà della casa che prima era di Tariq. Due stanzette, niente di che, con la cucina in comune. Però almeno avevo compagnia e con Farid s’andava d’amore e d’accordo.
Per tutto settembre siamo andati a caccia di busaloni. Se ne cattura uno e gli s’annoda una cordicella con attaccata una piuma. Quello vola lento, a fatica, e ti porta dritto a casa sua. Abbiamo trovato altri tre nidi, che abbiamo impiantato in vari punti della collina, il più lontani possibile l’uno dall’altro.
Se no s’andava a far lavori per questo e per quello, come lui faceva l’anno prima col fratello. Perché comunque si doveva arrivare all’estate prima che i nidi fossero di nuovo maturi.

Ecco ispettore, a questo punto penso sia il caso che le dica qualcosa di me.
Il più gran dramma della mia vita è stata la morte del mi nonno Dante, che per me era più d’un padre. Il mio vero babbo non m’è mai garbato tanto, non sto a raccontarle il perché. Ero l’ultimo nato, via, m’è sempre parso che a lui gli è scocciato che fossi venuto al mondo. Mi vedeva come una bocca in più da sfamare.

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Invece nonno era generoso, non solo con me, con tutti i nipoti. Aveva un animo buono, grande, era lui che teneva insieme le famiglie.
Quando se n’è andato, è stato l’inizio di un’epoca che io chiamo, quando la rivivo dentro di me, ‘lo sfascio’. Nel giro di due o tre anni tutti i cugini erano emigrati, chi a Milano, chi in Svizzera o in Germania. Siamo rimasti solo noi e zio Santino, che s’era comprato i terreni giù a valle e aveva preso a coltivarli con le macchine grandi. A noi eran rimasti quelli impervi che già rendevano poco, e poi quando i pozzi si son seccati, più nulla. Per questo babbo e Santino han litigato forte, senza più parlasse per anni, finché a babbo per la rabbia non gli è scoppiato il cuore ed è schiattato. Mio fratello grande se n’è andato a studiare a Firenze coi soldi lasciati dal babbo, mia sorella s’è sposata, e io son rimasto solo con mamma.
Al principio questa situazione mi pareva normale. Ero un pischello di quindici anni, mi ci adattavo. Poi ho capito che m’avevano incastrato, non sarei più riuscito a cavarmi di lì, ma era troppo tardi. Quando mamma s’è ammalata, era come se tutti si aspettassero che fossi io a occuparmi di lei, che quello doveva diventare il mio mestiere.
Con mamma non è che non s’andasse d’accordo. Però più s’invecchiava più le veniva la rogna, rompeva i coglioni. O forse ero io che m’ero stufato, vivevo aspettando che morisse. Era arrivata ai novanta e non crepava mai, ‘sta vecchia balorda, era attaccata alla vita come una cozza allo scoglio. Così mi son trovato che andavo per i sessanta ed ero solo e non m’andava più manco de lavamme. Mi restavano i terreni, ma coi cinghiali che ti sfascian tutto non valeva neanche più la pena starci dietro. Bisognava fare la recinzione e i soldi non c’erano. Quando mamma è morta ho pensato: ma che ci sto a fare al mondo? Me so’ infilato in bocca la canna del fucile un par de volte, ma non ho mai avuto le palle. È lì che si son presentati gli egiziani.

Arrivata l’estate, la seconda estate intendo, abbiamo fatto un bel raccolto di larve, più d’una tonnellata. Portiamo a casa tanti soldi che non sappiamo neanche dov’annisconderli.
Dobbiamo impiantare altri nidi, dice Farid.
Non possiamo però metterli pure quelli sulla collina, sarebbero troppo vicini agli altri che già si stanno facendo la guerra fra loro. Son molto territoriali i busaloni.

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Capirà che arrivati a quel punto, io volevo fare solo piacere a Farid, fallo contento in tutti i modi. Non pensavo più con la mia zucca, che ‘sta cosa poteva diventare pericolosa. Se Farid Mahfouz m’avesse proposto di cacare in piazza vestiti da pagliacci, gli sarei corso dietro.
Così gli propongo di affittare dei terreni da uno svizzero, un certo René, che è arrivato qui negli anni ottanta assieme a parecchi altri, ma poi è rimasto solo lui.
Eran terreni boschivi ma assolati, che avevamo individuato perché oramai eravamo piuttosto esperti di allevamento di busaloni, che poi non è che ci voglia granché. Abbiamo fatto a questo René un’offerta vergognosa, che non poteva rifiutare, per due campi buoni per far legna, distanti da casa sua, in mezzo ad altre particelle.

Passano i mesi e tutto va a gonfie vele. Di lavorare come braccianti non ne avevamo più bisogno, così m’ero messo in testa di riportare in vita la famosa vigna, lì davanti a casa. Prenderò la multa, m’ero detto, pazienza, invece poi non me l’hanno mai data.
Farid va e viene da Sinalunga. S’è accordato con l’imam per finanziare la costruzione di una moschea. Dice che se abbiamo avuto fortuna lo dobbiamo ad Allah, e io dietro come al solito.
Dopo che m’ero sposato l’Amina, Farid m’aveva insegnato a pregare. Mi piaceva sempre di più ‘sta religione. La legge del Corano non è tanto sbagliata secondo me. Devi solo pregare e rispettare il Ramadam.
S’era arrivati a maggio e sulle viti che avevo piantato cominciavano a spuntare le prime uve. Già pregustavo la fine dell’estate per vendemmiare e rastrellare altra grana con le larve. C’era un’unica rogna nella mi vita rappresentata da ‘sta ragazza figlia di Farid, la Mona di cui si parlava prima.
Ormai aveva compiuto i sedici anni, ed era sbocciata come una donna fatta e finita, pareva n’avesse almeno venti. Però era sfrontata, ‘na maiala. Co’ ‘ste du labbra che parevan canotti, guardava tutti come se volesse trombasseli, pure me. S’aggirava per casa mezza ignuda. Ce l’avevo tutto il giorno davanti, m’alluzzava parecchio.
Magari le garbano i vecchi, mi dico. Con l’eccezione dell’Amina, per tutta la vita manco le scrofe me se filavano, figuramoci le regazzine. Lei no, mi pareva che le ispirassi simpatia. Ecco, io c’ho una teoria: credo che a un certo numero di regazzine l’alluzzino proprio i vecchi. Però quelle di qui se tengono, non lo danno a vedere perché trombasse un vecchio sarebbe peggio che rubare in chiesa. Però questa era nata in Egitto e credo che laggiù sia più normale.

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La casa era spesso vòta. Farid passava più tempo a Sinalunga che qui e la su moglie badava a una signora inferma, nel fine settimana anche la notte. Amina era molto occupata coi figli suoi, che erano ancora tutti piccoli, e pareva non notasse nulla.
Un pomeriggio che eravamo soli, mi siedo sul divano in soggiorno a guardare la tele in mutande, e sposto un po’ il bordo del pacco di modo che se vedan bene la fava e gli zibidei. Sono sicuro che prima o poi Mona passerà di lì e non potrà non notare la cosa, il soggiorno è fra le stanze dei ragazzi e l’ingresso, il passaggio è stretto. Così intanto recepisce il messaggio, mi dico, poi si vedrà.
Difatti non mi tocca aspettare tanto che lei passa, guarda dritto davanti a sé ma con la coda dell’occhio sono sicuro che mi vede. Esce in cortile, se ripassa entro dieci minuti vol dire che ce sta, mi dico, e difatti manco il tempo di cambiare canale che eccola di nuovo, torna in camera e chiude la porta. M’alzo subito e le vado dietro, c’ho ancora il coso de fori che mi balla fra le gambe. Apro la porta e questa caccia un urlo che mi fa saltare all’indietro.
Madonna bona, mi dico rivestendomi, mo’ questa racconta tutto al su babbo ed è finita. Attendevo l’ora di cena come il giorno del giudizio. Invece niente, silenzio assoluto.
Poi, una decina di giorni dopo, ci ritroviamo di nuovo soli in casa, era una cosa abbastanza normale. Io sono di nuovo seduto in soggiorno davanti alla tv, ma questa volta col pigiama. Senza che faccia niente, lei mi s’avvicina, mi si siede accanto e mi dice: ti va se ti faccio un pompino? Madonna se mi va, le rispondo, e mi calo le brache. E lei me lo piglia davvero in bocca, da non credere proprio. Non capivo che stesse accadendo, e comunque sia son durato poco. Anche in condizioni normali non è che abbia una gran resistenza, e preso così alla sprovvista, con una fica del genere…
Non ti credere mica, mi fa lei dopo, l’ho fatto solo perché ho perso una scommessa. E se ne va ridendosela.
Scommessa o non scommessa, a me quel mugolone m’ha riportato in vita. Mi sentivo un altro, mi pareva d’esser finito in paradiso. Avevo i soldi, l’Amina che me la dava regolarmente, e ora quella gran fica giovane che prima o poi sognavo de trombamme. Passavo i giorni a famme dei viaggi assurdi, mentre lavoravo al campo. M’immaginavo di andare da Farid e chiedergli se me la faceva sposare, perché sapevo che loro possono avere anche più d’una moglie. Però questo pensiero m’è passato presto, perché con l’andare dell’estete Farid non era più lui.

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Non capivo che gli fosse girato, più s’entrava nel caldo, più si faceva serio e taciturno. M’era venuto anche da pensare, naturalmente, che sospettasse qualcosa di quel che era successo. Ma mi pareva impossibile, se l’avesse saputo m’avrebbe accoltellato nel sonno, mi dicevo.
Intanto s’avvicinava l’epoca di fare il raccolto, s’era ai primi di agosto. Ci dobbiamo organizzare in qualche modo, gli ripetevo, che con sei nidi in due non ce la facciamo. Le larve van tutte raccolte negli stessi giorni, e il lavoro è sfiancante. Lui tergiversava, diceva che stava cercando gente fidata tramite l’imam, che al momento bono m’avrebbe fatto sapere. Finché una sera ci si presenta alla porta quel René, lo svizzero, assieme a un paio di contadini che c’hanno i terreni non lontani dai boschi che abbiamo affittato da lui.
Oh che combinate? ci chiedono.
Viene fuori che questi contadini si son ritrovati coi campi invasi dai busoloni, li han seguiti fin dentro al bosco e hanno trovato i nidi impiantati da noi. Han capito subito che qualcuno ce l’aveva messi, e sono andati da René a chiedergli conto pensando che fosse roba sua. Al che lo svizzero ha voluto tornare là dentro con loro per vedere i nidi impiantati coi su’ occhi, e gli ha detto che quei boschi li aveva dati a noi in gestione e doveva per forza essere opera nostra.
O che bischerata è mai questa? Ci urla addosso uno dei contadini con la faccia viola. Noi ce danniamo per ammazzare ‘sti inzetti e voi ce li portate? Ce volete fa’ dispetto? M’han rovinato un ettaro di vigna che ce son rimasti i raspi. 
M’hanno attaccato le arnie, dice l’altro, e han fatto fuori trentamila api in un giorno, mozzandole le teste.
Io me ne sto cheto, lascio che sia Farid a rispondere, e lui nega tutto. Non siamo stati noi, gli dice, che c’avete le prove? Al che questi s’incazzano ancora di più. Secondo me era meglio spiegargli la storia delle larve, che manco in mille anni se l’immaginavano, altrimenti questi credevano che l’avevamo fatto per andar contro a loro, chissà per quale motivo. Però mi taccio per non leticare con Farid. Così finisce che questi se ne vanno più invipiriti di quando sono arrivati.

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Qualche sera dopo, la notte sento un bailamme fuori dalla finestra. M’affaccio e non vedo nulla. Saranno i cigniali, mi dico, e m’infilo la vestaglia per andare a scacciarli, sennò questi fanno le buche in cerca di tuberi selvatici. Invece non faccio in tempo ad arrivare alla porta che sento uno schioppo tremendo. Si sveglia anche Farid e usciamo insieme a vedere: il suo furgone è avvolto nelle fiamme, e in lontananza scorgiamo un’auto che sparisce dietro alla curva sgommando. Facciamo per prendere il mio Duster per inzeguilli, ma pure quello c’ha tutte e quattro le ròte sbrindellate.
Da quel momento, Farid ha dato di barta. Gli ho visto montar dentro ‘na rabbia, come quelli nei film che se trasformano nell’omo lupo.

Per tre giorni non lo si vede più. Provo a chiamallo cento volte ma non risponde. Poi torna vestito con un caffettano bianco fino ai piedi, come quello del funerale. Mi dice che l’abito si chiama thobe, e indossa anche un cappello che si chiama kufi. N’avevo visti parecchi bardati a quel modo, ma lui mai, eccetto al funerale di Tariq, e non mi diceva niente di buono.
Difatti, la sera mi prende da parte per raccontarmi che ha digiunato per tre giorni assieme all’imam, e annuncia che da quel giorno le cose cambieranno. L’incidente coi contadini, il furgone bruciato e anche la morte di Tariq, sono dovuti al fatto che per tutta la vita non è stato un buon musulmano. Il problema è che non aveva mai conosciuto un vero imam, un uomo profondamente spirituale, completamente sottomesso ad Allah, fino al giorno in cui ha parlato con l’imam di Sinalunga, la sera dopo il funerale. Mi racconta che quella notte aveva pianto moltissimo, per questo poi era tornato più volte a trovarlo, e col tempo s’era convinto sempre di più d’essere un terribile peccatore, e questi ultimi fatti gli avevano dato la conferma.
Per purificarsi da tutti quei peccati, però, non bastava il suo impegno personale. Essendo un padre di famiglia, era responsabile per la condotta della moglie e dei figli, e adesso anche loro avrebbero dovuto fare tre giorni di digiuno, che lui avrebbe proseguito assieme a loro, anche se già sentiva mancare le forze che quasi non stava in piedi, ma sentiva pure una forza più grande nel cuore, il volere di Allah che può tutto ed è più grande di ogni cosa al mondo. E quindi mi chiede se anch’io me la sento di partecipare, che sarebbe una cosa molto importante per lui e gradita ad Allah, e da quel momento io sarei per lui proprio come un fratello.

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Mi dice che il fatto che quando Tariq è morto io fossi lì con loro e poi abbia sposato l’Amina fa parte di un disegno divino, e noi dobbiamo tutti sottometterci al volere di Allah, per essere bravi musulmani e perché le cose si mettano a posto.
A quel punto, io non è che non avessi cominciato a dubitare un po’ che a Farid gli fosse partito ’n cardano in testa, però ero ancora molto soggetto alla sua influenza e soprattutto non ci volevo leticare. Così ho accettato di fare il digiuno e l’ho fatto fare anche all’Amina e ai suoi figli, anche se m’è dispiaciuto tantissimo per loro, perché passata la prima giornata me pareva de morì. Un conto è fa’ il Ramadam che poi arrivata la sera t’ingozzi il doppio e ogni boccone ti pare il paradiso. La notte, la pancia mi doleva tanto da tenermi sveglio. M’immaginavo ‘sti poveri citti cosa stavano patendo, che se ne stavano lì boni boni coll’occhi sgranati dalla sofferenza. Passate quarantott’ore poi, il cervello ha cominciato a fa’ le bizze. Facevo i pensieri più strani, come in un sogno a occhi aperti. Il tempo sembrava andare all’indietro. Guardavo l’orologio e giuro d’aver visto la lancetta dei secondi che al posto d’avanzare arretrava. Per questo non l’ho guardato più. Per resistere, m’immaginavo i nostri nonni durante la guerra, che di fame n’avevan dovuta patire parecchia e in qualche modo l’avevano superata. Difatti fra una tazza di tè e una preghiera, anche il terzo giorno s’è concluso. Ma non è finita lì.
Per prima cosa, Farid ha costretto la su’ moglie a coprisse. Lei non era come l’Amina, andava a giro coi vestiti nostri e i capelli in bella mostra. Di lì in poi non ha più potuto, Farid era divenuto così incazzoso che a contraddillo se rischiava de piglià ‘na bastonata. Anch’io mi son dovuto comprare il thobe e la kufi. Mi sentivo ridicolo ma l’ho fatto lo stesso. La Mona invece non era come noi, era chiaro che con lei avrebbe avuto filo da torcere.
Un giorno è tornata a casa e c’era steso sul divano il vestito che si sarebbe dovuta mettere, come quello delle altre, una tunica azzurra larga e dritta, che le copriva tutte le forme. Lei manco lo voleva toccare quell’abito, uno dopo l’altro han cominciato tutti a berciare che per poco non s’azzuffavano. Ma la Mona era irremovibile, non faceva che ripetere che no, che piuttosto s’ammazzava.

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Così il giorno dopo Farid le ha requisito il cellulare. Un momento che l’aveva lasciato sul tavolo, lui se l’è preso e l’ha fatto sparire, non so nemmeno se l’aveva nascosto o l’aveva proprio buttato via. Fatto sta che appena la Mona se n’è accorta s’è messa a piangere e a strillare come ‘na matta, ed è scoppiata un’altra baruffa. ‘Sta volta però Farid ha preso a muover le mani, l’ha dato un paio de labbrate e lei s’è messa a insultarlo in egiziano. Non so che dicesse ma lui le gridava: non bestemmiare, puttana! e l’afferrava per le braccia scotendola. Il tutto avveniva in soggiorno, intorno al divano con me, l’Amina e Haimen ch’eravamo accorsi sentendo il baccano. E lì non so che gli è preso, a Farid. Ha mollato la figlia che è ricaduta sul divano, ma quando questa ha fatto per levasse le ha tirato un cazzotto tremendo sullo zigomo. Lei, mezza tramortita, ha fatto per alzasse de novo e lui l’ha presa pe’l collo. Allora io ho afferrato il tavolino che stava al centro del soggiorno, davanti a me, l’ho issato sopra alla testa e l’ho schiantato sulla schiena di Farid.

S’è accasciato su di lei a buco ritto, cioè, bocconi, a pancia in giù. La Mona s’è scostata ed è corsa in camera. Io e l’Amina ci siamo avvicinati a Farid e l’abbiamo sdraiato sul tappeto, voltandolo. ‘Un se moveva.
L’hai ammazzato, mi dice la mi moglie. Gl’hai rotto il collo. 
Mi sa che l’ho colpito troppo forte, le rispondo, il tavolino era peso.
Così abbiamo chiamato l’ambulanza, quel che è fatto è fatto, ho detto dentro di me.
Ecco ispettore, le ho raccontato tutto, anche quello che non era necessario. Non lo volevo ammazzare Farid, era l’amico migliore che avessi mai avuto, volevo solo che la smettesse di importunare la Mona. È un angelo quella ragazza, non doveva trattarla a quel modo. Peccato sia finita così, stavamo bene fra noi, adesso m’arresti che voglio crepare in galera. Non me ne importa più un cazzo di nulla.